giovedì 3 dicembre 2009

Gli abbracci spezzati (Los Abrazos Rotos – Spagna, 2009)

Un film di Pedro Almodóvar. Con Penelope Cruz, Lluís Homar, Blanca Portillo, José Luis Gómez, Rubén Ochandiano, Tamar Novas, Marta Aledo, Agustin Almodóvar.


“I film bisogna finirli anche ad occhi chiusi,
non importa come”


Quale condizione peggiore si può immaginare per un regista, se non quella di perdere la vista? Harry Cane oggi scrive sceneggiature, deciso a prendere dalla vita il meglio che può ancora riser-vargli. Ma un tempo, quando il suo nome era ancora Mateo Blanco, visse l’intensa passione dell’amore per Lena (la bellissima Penelope Cruz, vera e propria icona del regista spagnolo), finito tragicamente una notte sull’isola di Lanzarote. Quei giorni continuano a bruciare, e per Mateo è arrivato il momento di affrontare quel passato, con l’unica possibilità che gli rimane oggi, il racconto.

Attraverso le sue parole riprendono così sostanza le immagini di un film incompiuto, tenuto per tanti anni nascosto, al riparo. Almodovar compone un’opera sull’intensità delle emozioni, quelle in grado di cambiare per sempre il destino di chi le vive, attraversando un intreccio di sguardi, da quello “negato” del suo personaggio di oggi, a quello invece rivolto ad un passato doloroso, ancora indissolubilmente ancorato al presente. Se quegli abbracci sono stati spezzati e resi impossibili dagli eventi, un unico filo continua a legare le vite dei protagonisti di questo film, senza soluzione di continuità.

Ed è il cinema a rendere possibile quel legame. Attraverso la costruzione del classico amore contrastato, quello fra Mateo e Lena, ostacolato dal marito di quest’ultima, il perfido e ricco Ernesto Martel, il regista spagnolo rende omaggio, infatti, all’essenza del cinema stesso. Nel rigore formale della messa in scena, nell’ossessione della narrazione, nelle citazioni dei classici e nelle auto cita-zioni, si scorge la passione di chi, del cinema e del fare cinema, è profondamente innamorato.

E soprattutto di chi, attraverso l’obbiettivo della macchina da presa, calibra il suo stesso sguardo sulla vita e i sui sentimenti.

martedì 24 novembre 2009

RADIO SINGER

Un documentario di Pietro Balla.

I documentaristi, quelli bravi, di solito non cercano la verità assoluta. Almeno non quella con la V maiuscola. Non ambiscono al ruolo di storici, non sono economisti o sociologi, ma si accontentano in un certo senso di raccontare delle storie, di trasmettere delle emozioni, spesso in prima persona, rischiando e condividendo il proprio sguardo sulla realtà. Pietro Balla, presentando Radio Singer al Festival di Torino nei giorni scorsi, ha rivendicato con forza questo suo ruolo di narratore che presenta allo spettatore una sua versione, uno delle tante possibili, di un pezzo del nostro passato recente.

Il film di Pietro Balla ci offre un breve sguardo sulla stagione di lotte politiche e sociali vissuta dall'Italia negli anni Settanta, restituendoci non tanto una sequenza di avvenimenti storici, quanto piuttosto il sapore di qualcosa molto lontano nel tempo, senza nascondere il rimpianto e la nostalgia per quello che oggi non c'è più, e l'incazzatura per quello che avrebbe potuto essere.

Gli avvenimenti sono quelli del 1 ottobre 1977 a Torino, giorno in cui si prepara una grande manifestazione per il lavoro nel centro della città. In periferia, nel comune di Leinì, la Singer, storica fabbrica di elettrodomestici, quel giorno chiude i battenti per sempre, smettendo di produrre frigoriferi, vero e proprio simbolo del benessere e del miracolo economico.

A Leinì quel giorno si conclude un ciclo di intense lotte per la difesa dell'occupazione, in cui per la prima volta in Italia gli operai hanno tentato di portare la loro protesta fuori dai cancelli della fabbrica, coinvolgendo gente di spettacolo e cittadini comuni. Sul palco della Singer si esibirono, infatti, Guccini, Milva, Franca Rame, Dario Fo e il Living Theatre, in quello che diventò un esperimento politico innovativo, che cercava di superare i confini della rivendicazione operaia. Un tentativo che, nonostante l'investimento di energie, era però destinato a fallire difronte alle logiche del mercato. E così, alle immagini di repertorio che ci mostrano cortei imponenti, assemblee affollate, fanno da contrappunto le inquadrature di oggi, le strade e le piazze semivuote. Le voci dei cortei e delle manifestazioni non ci sono più nelle giornate di Pietro Balla.

Come con le immagini, due voci si alternano nel documentario a raccontare quella giornata da due punti di vista diversi: quella del passato appartiene a Maddalena, operaia, che dai microfoni di Radio Singer, la prima radio libera a raccontare il mondo della fabbrica dall'interno, da l'addio definitivo ai sogni di lotta, al suo posto di lavoro e alla vita. La voce di oggi invece è del regista stesso che, in prima persona, racconta il suo 1 ottobre '77, passato in casa ad ascoltare la sua compagna, Maddalena appunto, mentre fuori la Storia faceva il suo corso.

Oltre alla fine della Singer, qualcos'altro andò storto quel 1 ottobre a Torino. Mentre i cancelli della fabbrica di Leinì si chiudevano, il corteo attaccò con le molotov un bar del centro, presunto ritrovo di fascisti, uccidendo un incolpevole figlio di emigranti. Gli stessi emigranti che in fabbrica avevano contribuito al miracolo del boom economico, e che in quegli anni vivevano il risveglio amaro del declino industriale.


martedì 17 novembre 2009

Nemico Pubblico (Public Enemies - USA 2009)

Un film di Michael Mann. Con Johnny Depp, Christian Bale, Marion Cotillard, Billy Crudup, Stephen Dorff.

    - In questo posto, alla gente importa da dove vieni. Io, invece, la valuto per dove va.

    - E tu, dove vorresti andare?

    - Ovunque io voglia


    Michael Mann mette in scena, con rigore formale e grande capacità narrativa, l’epilogo tragico di John Dillinger, inafferrabile svaligiatore di banche che, negli anni ’30, mise in serio imbarazzo la giustizia americana. Eroe solitario e irriverente, Dillinger è in guerra per conquistare il lusso che gli è stato negato, belle donne, auto veloci, feste e abiti sfarzosi. Ad ogni suo arresto, ali di folla lo attendono lungo le strade, affascinate dal mito del fuorilegge, desiderose di condividere un pezzettino di quella vita che, nell’America della Grande Depressione, appariva come un sogno irraggiungibile. Il personaggio di Dillinger è uno di quelli capace di mettere in discussione alcuni dei principi che regolano la vita dei bravi e onesti cittadini. Non si possono liquidare semplicemente la sua esistenza, e la sua fine, come quelle che si merita un delinquente incallito, incapace di sopportare le regole del vivere civile. Dillinger appartiene a quella stirpe di banditi, privi di qualsiasi scrupolo se un ostacolo si frappone ai propri progetti e, al tempo stesso stesso, capaci di essere fedeli e leali fino alla fine.

    Nella sua vita, e nel film, agli inseguimenti, alle sparatorie si alternano momenti di passione concreta, di tenerezza e rimpianto. Ma non sarà l’amore a salvare un uomo incapace di relazionarsi agli altri senza provocare morte e ferite. Mentre sui ritratti dei suoi compagni appare la scritta “deceduto”, inesorabilmente Dillinger si ritroverà solo, condannato ad andare avanti, senza spazio per ripensamenti e per futuri progetti. L’ultimo colpo non sarà quello che gli permetterà di partire con l’amata Billie per rifarsi una vita, lontano da tutto e tutti. Un personaggio perciò capace di mettere in discussione l’idea stessa di giustizia, rivelando le contraddizioni di un sistema che nel dividere i buoni dai cattivi appare spesso ingiusto e arbitrario. Dillinger si relaziona con un sistema corrotto, e corruttibile. La stessa polizia, e soprattutto gli agenti della nascente FBI, vestiti esattamente come gli stessi gangster, non si fanno scrupoli nell’adottare gli stessi metodi dei criminali per svolgere il proprio lavoro. Interrogatori brutali, ricatti, una colpevole leggerezza nell’aprire il fuoco contro chiunque, nel buio, si trovi sulla traiettoria dei propri mitra. La caccia finisce quasi per sovrapporre i suoi protagonisti, non più nettamente divisi fra buoni e cattivi. Fino ad arrivare a quella che appare come una vera e propria esecuzione: Dillinger, colpito alle spalle dagli agenti, muore su un marciapiede di Chicago, all’uscita di un cinema. Si compie il suo destino, e l’epilogo non poteva che essere tragico. Ma in questo non c’è nessuna sorpresa, Dillinger stesso sembra esserne consapevole e determinato a vivere fino in fondo il suo destino.

venerdì 6 novembre 2009

La doppia ora - Italia 2009

Un film di Giuseppe Capotondi. Con Ksenia Rappoport, Filippo Timi, Antonia Truppo, Gaetano Bruno, Fausto Russo Alesi.


Non ero preparato a te!


Finalmente! Verrebbe da esclamare alla fine della visione di questo film. Finalmente perché un film italiano, che si aggira nei territori insidiosi del genere thriller, risulta appassionante e credibile in tutti i suoi elementi. E questo deve essere quello che hanno pensato critici e pubblico della Mostra di Venezia, dove La doppia ora è risultato il film italiano più apprezzato. L’Indigo Film, casa produttrice tra gli altri dei film di Paolo Sorrentino, Il Divo e Le conseguenze dell’amore, con questo film conferma il proprio occhio di riguardo nei confronti del cinema italiano di qualità.

Un ottimo esordio per Giuseppe Capotondi, regista di videoclip e pubblicità, che ha in una sceneggiatura perfettamente calibrata il suo punto di forza. Un narrazione che, senza alcuna sbavatura, cattura lo spettatore fin dalla prima scena, senza disdegnare di provocare qua e la anche qualche sobbalzo sulla poltrona. La trama, della quale naturalmente eviterò di fornire particolari, è una di quelle che riescono ad andare oltre la semplice sequenza di azioni spettacolari, per inoltrarsi nei meandri della mente dei personaggi, legando avvenimenti e sentimenti in un intreccio avvincente. I dubbi si alternano alle convinzioni, i ricordi si confondono fino a diventare ossessioni. Agli spettatori, dunque, il solo compito di lasciarsi andare allo svolgersi di una storia in cui niente è come sembra. O piuttosto, tutto è esattamente quello che appare.
A dare credibilità alla trama ci pensano gli ottimi interpreti, tra cui spiccano proprio i due protagonisti: Ksenia Rappoport, giustamente premiata con la Coppa Volpi all’ultimo Festival di Venezia, e Filippo Timi. I due riescono a costruire il ritratto di due personaggi complessi, tormentati entrambi dal proprio passato e incapaci di vivere pienamente il presente. La doppia ora è, infatti, la storia di un amore bloccato sul nascere da eventi tragici. L’incontro tra Guido e Sonia, durante una serata per single, sembra destinato a sconfiggere la solitudine in cui vivono entrambi. Lei, cameriera in un hotel e misteriosamente affascinante. Lui, un ex-poliziotto che tenta di sconfiggere il proprio passato doloroso passando lunghe giornate a fare da custode ad una grande villa vuota. Proprio quando l’amore sembra aver cominciato a sciogliere entrambi i personaggi, irrigiditi e impacciati, la tragica morte di Guido rimetterà tutto in discussione. A quel punto la storia prenderà una piega inaspettata, sconvolta da continue accelerazioni in avanti e ritorni indietro del tempo e spostamenti su diversi piani narrativi. La doppia ora infatti non è solo quella in cui, sul quadrante dell’orologio, appare una coppia di numeri uguali, ma soprattutto quella in cui possono accadere eventi straordinari, in cui possono crearsi connessioni fra mondi paralleli. In cui i ricordi e le paure emergono prepotenti, fino a ritornare ad essere realtà.

lunedì 26 ottobre 2009

Miss Little China – Italia 2009

Un documentario di Riccardo Cremona e Vincenzo De Cecco





È sempre un buon esercizio mettersi nei panni degli altri.
Peccato che quasi nessuno abbia voglia di farlo perché è molto più comodo restare nei propri.






È un viaggio interessante quello che ci propongono gli autori di questo documentario. Si parte dal Casinò di Venezia dove si stanno svolgendo le prove per eleggere la Miss della più numerosa comunità cinese in Europa, e si attraversa l’Italia, da Brescia a Roma, per costruire finalmente il ritratto di una comunità diventata una presenza ben visibile nelle nostre città. Presente eppure così poco raccontata ed esplorata, se non in occasione di eventi di cronaca come la rivolta dei commercianti della ChinaTown milanese o per lo scandalo latte contaminato dalla melanina. A tentare di comporre questa lacuna ci provano perciò Riccardo Cremona e Vincenzo De Cecco, giovani autori di documentari, con questo film accattivante. Prodotto dalla casa editrice ChiareLettere (www.chiarelettere.it), il film in un certo senso rappresenta il seguito di un fortunato saggio “I cinesi non muoiono mai” di Riccardo Staglianò e Raffaele Oriani, ai quali si deve anche il testo che accompagna il dvd. Anche in questo caso dunque il documentario si conferma uno dei pochi spazi in Italia in cui le immagini possono più liberamente compiere un’indagine sulla realtà, dando corpo a quel desiderio di conoscere, indagare e magari mettere in crisi consuetudini culturali e pregiudizi di cui si sente tanto bisogno in questi tempi.

Miss Little China è infatti un progetto ambizioso perché, se da un lato come dicevamo, i cinesi sono generalmente considerati una comunità chiusa, impenetrabile, fatta di uomini e donne poco disponibili ad integrarsi e a partecipare a forme di vita collettiva, impegnati solo a lavorare; dall’altro lato ognuno di noi conosce e utilizza categorie e pregiudizi che ci danno la sensazione di saperne già tutto sull’argomento. Ma come fanno ad aprire così velocemente i loro negozi e le loro imprese? Ma nei ristoranti chissà poi cosa si mangerà veramente? A chi non è capitato di farsi delle domande del genere e provare, con toni che vanno dal diffidente all’irragionevole, a trovare delle risposte. Forse per la prima volta un documentario italiano prova a scavalcare questo muro costruito su un misto di diffidenza reciproca e pregiudizio. E altrettanto per la prima volta questa comunità smette di essere un fenomeno buono per un articolo di sociologia, per diventare un gruppo costituito da esseri umani a tutti gli effetti. Dietro le insegne e le vetrine, dentro i laboratori e i magazzini stracolmi di merci, i cinesi, sudano, piangono, sognano. I protagonisti, e in questo sta anche l’abilità dei due autori, narrano la propria intimità personale e familiare con sorprendente generosità, rivelando il volto di un’umanità che, neanche troppo in fondo, ci assomiglia. La sensazione per chi guarda il documentario è, infatti, quella di una continua sorpresa, ma non tanto perché ci vengono rivelati eccezionali segreti, quanto piuttosto perché dalle immagini e dalle interviste emerge una quotidianità fatta di desideri e timori, di sacrifici e voglia di libertà.
Uno degli aspetti più significativi in questo senso sono i rapporti non sempre facili fra generazioni, fra chi è arrivato anni fa e i suoi figli, nati in Italia. Una mamma che piange commossa ripensando ai sacrifici fatti sognando il futuro della propria figlia, oppure gli adulti che si lamentano che i giovani di oggi non sanno più cosa sia il lavoro, o ancora la voglia di emanciparsi, di realizzarsi dei loro ragazzi, risuonano infatti molto vicini ai nostri discorsi e alle nostre preoccupazioni per il futuro. Tra l’altro proprio alle seconde generazioni, in un certo senso, è affidato il compito di rompere i clichè dichiarando come fa una delle ragazze interviste, che nella vita c’è altro oltre il lavoro. Che il futuro può essere pensato diversamente.

Insomma, ci accorgiamo di quanto i cinesi d’Italia non siano poi così diversi da noi. Ci assomigliano, o meglio assomigliano tanto a quegli italiani che partivano, poveri, a cercar fortuna. Fortuna anche quella costruita lavorando senza orari e risparmiando su tutto, con l’ambizione della scalata sociale, di affrancarsi da miseria e fatica. E così che i protagonisti di questo film diventano una sorta di specchio che ci rimanda l’immagine di come eravamo, riuscendo al tempo stesso a costruire per contrasto il ritratto degli italiani di oggi: di come siamo diventati lamentosi, impauriti, rancorosi e sospettosi, come gli ascoltatori della radio le cui voci fanno da contraltare alle interviste.

Forse perchè, in una gioco di ricorsi storici, temiamo di ritornare ad essere noi i cinesi di domani?



mercoledì 14 ottobre 2009

Videocracy - Basta apparire

Un film di Erik Gandini - Svezia 2009

“Per noi italiani la parola TELEVISIONE non si riferisce più soltanto all'apparecchio in sé. La Televisione è molto di più, è un’entità influente e mistificata con un ignoto e inquietante potere, trapelato ormai in quasi tutti gli aspetti della vita, del sogno e naturalmente della politica. Quasi come un mostro”.


Videocracy è un film duro da digerire, anche per chi vive in Italia e a certe cose dovrebbe essere in un certo senso abituato. Non eravamo sorpresi, infatti, difronte allo spettacolo dello strapotere televisivo sulla quotidianità di ciascuno, osservando quanto la tv sia diventata una scatola dei desideri, una sorta di specchio deformato della realtà e, allo stesso tempo, un generatore di sogni, strampalati, irrealizzabili e terribilmente affascinanti. Ciò nonostante, dopo la visione di questo documentario, un silenzio quasi imbarazzato accompagnava l’uscita degli spettatori dalla sala. Segno forse che un film come questo è necessario anche per chi è dotato di una certa consapevolezza.

Il regista Erik Grandini, nato in Italia ma da molti anni residente in Svezia, ha deciso di provare a raccontare quanto profondo e “disturbato” sia il rapporto degli italiani con la televisione, costruendo un’indagine dallo stile discreto, molto lontano da quello di Michael Moore, e collocandosi in una posizione da osservatore esterno, che assiste al compiersi di un vero e proprio esperimento sociale. Esperimento iniziato una ventina d’anni fa quando, in un quiz su una tv privata, il premio per gli spettatori era lo spogliarello di una casalinga. Gandini lascia molto spazio ai protagonisti e alla loro voglia di mettere in scena se stessi, senza grandi inibizioni o pudori. E così, uno dopo l’altro compaiono sulla scena gli abitanti di un mondo che ciascuno conosce bene, personaggi di quell’universo dorato, che alcuni subiscono, ma in cui la maggior parte dei giovani italiani aspira ad entrare, subito. Videocracy svela, o meglio, rende visibili soprattutto le loro ossessioni, da quelle di personaggi già famosi e a pieno titolo “stelle” del panorama televisivo italiano fino a quelle di una moltitudine di sfigati che, è triste da dire, ma comprensibilmente aspirano anche loro a diventare ricchi non facendo quasi nulla.

E così nel documentario, all’ostentazione del proprio potere mediatico assoluto di un Lele Mora, vestito di bianco nella sua villa esclusiva in Costa Smeralda, attorniato come un imperatore decadente dai suoi tronisti, si alterna il patetico ritratto di Riccardo, ragazzo bresciano che, consapevole di quanto fare l’operaio sia ormai considerato un fallimento, aspetta ostinato che arrivi anche per lui il successo. In fondo che ci vuole, basta che proprio uno come Lele Mora scopra che a Brescia vive il “Van Damme italiano”. Nel mezzo, vero e proprio anello di congiunzione fra questi due livelli dell’evoluzione dell’uomo televisivo italico, c’è Fabrizio Corona, campione di cinismo e ostentazione di sé. Personaggio davvero interessante, dotato di un’ignoranza triste e feroce al tempo stesso, capace di annullare qualsiasi confine tra dimensione pubblica e privata innanzitutto nella sua vita, si definisce una specie di Robin Hood moderno che ruba ai ricchi ma, anziché dare ai poveri, tiene per sé il malloppo. E davvero i soldi sono per lui l’ossessione, fonte e obiettivo di quella frenesia che lo porta a vedere nei vip da fotografare delle macchinette per far soldi, rapidamente e senza grandi fatiche. Con il suo agire, al di là di ogni regola e in un certo senso senza consapevolezza, mette in atto una vera e propria vendetta nei confronti dello stesso sistema che lo ha generato. Un sistema che senza dubbio però sarà presto in grado di riassorbire il ribelle. Non sarà Corona a sconfiggere infatti una moltitudine di ragazze che aspirano a diventare una velina e a sposare un calciatore, non sarà lui a mettere in crisi davvero un modello così seducente. Dovremo aspettare e sperare, sdegnati, in qualcosa di meglio.

Piccola nota a margine: Rai e Mediaset non hanno neanche voluto trasmettere il trailer di questo film, definendolo un attacco all’attuale governo: se ci fosse stato bisogno dell’ennesima prova di quanto politica e spettacolo siano ormai due universi coincidenti, non avrebbero potuto far meglio.

mercoledì 30 settembre 2009

The Informant! (USA 2009)

Un film di Steven Soderbergh. Con Matt Damon, Scott Bakula, Joel McHale, Melanie Lynskey, Frank Welker.


"Questa storia è basata su fatti reali.
I personaggi e le situazioni sono stati però mischiati.
E i dialoghi sono stati adattati. Beccatevi questo!"


Il nuovo film di Sodeberg, reduce dalle fatiche dell’opera su Che Guevara, rischia in più occasioni di disorientare lo spettatore. La struttura narrativa del film infatti, riesce a ricalcare quella dello stesso protagonista di questa vicenda realmente accaduta negli Usa. Marc Whitacre ha rappresentato, infatti, un vero e proprio caso delle cronache giudiziarie e finanziarie americane degli anni novanta. Inizialmente “arruolato” come collaboratore dall’FBI in una inchiesta per frodi alimentari che coinvolgeva la sua stessa azienda, nel giro di qualche anno Marc ha finito per rivelarsi un truffatore ed un incallito bugiardo. Felicemente sposato, ricco e gratificato dai suoi capi, Marc non avrebbe avuto, apparentemente, nessun interesse a far emergere le strategie fraudolente che la sua compagnia metteva in atto, a livello mondiale, per il controllo dei derivati del mais. Eppure è lui stesso a proporsi all’FBI come collaboratore, una sorta di solerte 007, scatenando una serie di eventi che non lo porteranno come pensava a diventare presidente della società ma direttamente in una cella federale. Marc, interpretato da un ottimo Matt Damon calvo e ingrassato di 13 chili, inventa personaggi, falsifica documenti, costruisce un intricato sistema di bugie destinato, però, a crollare miseramente.

Quello che per il protagonista appare come una specie di gioco, ad un certo punto sembra sfuggire completamente al suo controllo, fino a mostrare le sue svariate identità: da strampalato collaboratore di giustizia, eroe in lotta contro un capitalismo corrotto, ad autore a sua volta di una colossale truffa da svariati milioni di dollari. Il film quindi, si discosta immediatamente dalla semplice denuncia, seguendo di pari passo la narrazione che lo stesso Marc fa, in una sorta di dialogo continuo con lo spettatore, permettendoci di entrare in diretto contatto con i ragionamenti di un uomo malato.

Sodebergh sceglie i toni lievi della commedia, con continui spostamenti del confine fra menzogna e verità, sempre all’inseguimento del delirio di un personaggio in continua evoluzione e incapace di tacere.

martedì 22 settembre 2009

Il cinema salvato dal Sud – Un libro di Rita Picchi

Il cinema da salvare è quello italiano. Rita Picchi si chiede se il ruolo del salvatore sarà ricoperto dal nostro Meridione. Domanda provocatoria che, alla fine di questo libro edito da Kurumuny, rimane volutamente senza una risposta definitiva.
Rita Picchi, critica e autrice di teatro, ragiona in questo suo appassionato lavoro sul futuro possibile della nostra industria cinematografica scegliendo il punto di vista privilegiato di alcuni autori meridionali. Attraverso l’analisi tematica dei protagonisti, come Rubini, Winspeare, Roberta Torre, e altri, Rita Picchi propone una sorta di viaggio che a ritroso, ma con lo sguardo rivolto sempre al futuro, fino alle origini di un approccio cinematografico al Sud e al contributo tematico dell’etnologo Ernesto De Martino al cinema italiano.
Se è vero, come scrive la regista Cecilia Mangini nell’introduzione, che il cinema ha rappresentato un «tramite continuamente rinnovato di riscontro del reale», una finestra sulla contemporaneità e l’occasione per un confronto critico con il percorso a volte accidentato della nostra società, Rita Picchi propone una riscoperta di questo ruolo. Troppo spesso, da spettatori abbiamo provato in questi ultimi anni una eccessiva distanza fra temi e personaggi sullo schermo e la nostra quotidianità. Scorrendo i titoli prodotti negli ultimi anni è facile notare infatti che, pur realizzati con una discreta qualità, fondamentalmente i film italiani parlano di un paese che non esiste. Raccontano per lo più di storie d’amore, con protagonisti giovani trentenni in affanno, confusi, mediamente benestanti e alle prese con il loro piccolo mondo e i loro problemi esistenziali. Senza grandi ideali, con la politica sfumata sullo sfondo, il cinema italiano ci ha proposto storie indolore, incapaci di turbare o scandalizzare nessuno, ma che piuttosto placidamente si confondono tra loro. Goffredo Fofi scriveva già vent’anni fa invece che “ il cinema più vitale è quello dei paesi in cui le contraddizioni sono esplosive, soprattutto nel Sud”. Ad un cinema distratto si è contrapposto quindi un cinema periferico, lontano dalle capitali del grande schermo, e in virtù di questa lontananza capace di cogliere le contraddizioni dell’esistenza. «Forse, scrive Rita Picchi, questa arte bisognerebbe trovare un modo per renderla viva. Contaminarla con gli umori, con gli odori del corpo spesso sgradevoli e maleodoranti, e con i vuoti della mente, i corto circuiti improvvisi: una porzione di irrazionalità insostenibile e il coraggio di sporcarsi davvero le mani».

E’ un cinema, quello raccontato da Rita Picchi, che si nutre di un Sud inteso come luogo delle radici e dell’anima, luogo capace ancora di turbare la visione, proponendosi come sguardo altro sul reale. E’ un cinema intriso degli studi antropologici di Ernesto De Martino, animati da rigore scientifico e passione civile. E da quello stesso desiderio di anticonformismo che spinse alcuni giovani documentaristi negli anni cinquanta e sessanta, a tentare il racconto del Sud dei grandi cambiamenti economici e sociali del cosiddetto boom economico, con lo stesso piglio polemico e con la medesima grande passione civile. Gli esempi citati sono tanti, da Stendalì di Cecilia Mangini, ricostruzione documentaria di una lamentazione funebre, ai film di ispirazione antropologica di Luigi Di Gianni.

L’esigenza quindi, se il cinema italiano vuole salvarsi, è quella di allontanarsi da schemi convenzionali e prestabiliti, riscoprendo le radici culturali e antropologici che non senza sorprese, accomunano anche registi lontani fra loro negli anni. Rita Picchi lo fa per esempio sottolineando il legame, tematico e di luoghi, che c’è fra il Gianfranco Mingozzi del documentario “La Taranta” e Edoardo Winspeare autore di “Pizzicata” e “Sangue vivo”.

Alla fine l’autrice non scioglie il dubbio, vedremo se lo schermo saprà ritrovare quella forza e quel coraggio, se gli autori del nostro cinema sapranno produrre film ineducati, mal pensanti, politicamente scorretti ma assolutamente necessari. Quello che è certo però che il Sud saprà essere ancora una grande occasione per chi avrà occhi curiosi e coraggiosi.

venerdì 4 settembre 2009

L'era glaciale 3 - L'alba dei dinosauri (USA 2009)

Un film di Carlos Saldanha. Con Ray Romano, John Leguizamo, Denis Leary, Simon Pegg, Queen Latifah, Lee Ryan, Massimo Giuliani.

«Una volta mi sono innamorato,
era una banana, decisi di sposarla»


C’era grande attesa (anche per gli incassi) per il terzo episodio dell’Era Glaciale. E le attese di pubblico e critica nel complesso non vengono deluse.
La formula scelta non brilla particolarmente per originalità, evidentemente la formula che funziona così bene non si cambia: la struttura narrativa, come nella migliore tradizione dei film d’animazione degli ultimi tempi, si regge sulla ricerca di un personaggio da parte dei suoi compagni. In questo caso il protagonista è Sid, il bradipo pasticcione, rapito da un gigantesco, e apparentemente molto feroce, tirannosauro. Mannie e Ellie stanno per avere il loro cucciolo e questo sembra sconvolgere gli equilibri del branco, specie per Diego, la tigre con i denti a sciabola, che ormai inizia a sentirsi troppo vecchio e mollaccione e Sid, che, nel tentativo di crearsi una sua famiglia rubando alcune uova, mette in moto il meccanismo narrativo del film. Riusciranno perciò i mammut Mannie e Ellie, Diego, insieme agli inseparabili opossum Crash e Eddie, a ritrovare sano e salvo il loro amico? Naturalmente! E soprattutto, come ogni edificante finale che si rispetti, l’avventura rafforzerà il loro spirito di gruppo, la loro amicizia e la voglia di aiutarsi nei momenti di difficoltà. Nonostante le differenze fra i componenti del branco, i rispettivi desideri e paure, a prevalere è quindi la voglia di collaborare all’interno della propria famiglia. L’era glaciale 3 si inserisce a pieno in un rassicurante schema narrativo, peccando in un certo senso di ripetitività e di eccessivi riferimenti e citazioni ad altri film di animazione. La ricerca di Sid in un mondo sconosciuto e minaccioso fa pensare per esempio alle avventure del padre di Nemo, solo per citarne uno. Insomma, la sensazione “minestra riscaldata” è pericolosamente dietro l’angolo.
Non mancano naturalmente le trovate spassose, i siparietti dello scoiattolo Scrat, sempre all’inseguimento della ghianda e questa volta anche dell’amore, arrivano puntuali a risollevare il ritmo nei momenti in cui la trama rallenta. Così come in generale non mancano i momenti più squisitamente di azione, con inseguimenti, capitomboli, sorpresi, affidati in gran parte alla “regia” del personaggio di Buck, un furetto avventuriero che rappresenta la vera novità della saga. Rimasto per troppo tempo nel pericoloso mondo sotterraneo dei dinosauri, Buck, come una sorta di novello Capitano Achab, ha dedicato la sua esistenza ad inseguire la sua Moby Dick, un gigantesco e cattivissimo dinosauro bianco. Il suo contributo sarà determinante nel salvataggio di Sid, e anche nel regalare agli spettatori momenti di pura azione. Troppo innamorato del pericolo, alla fine Buck sceglierà di continuare a vivere nel suo mondo, continuando a dare la caccia ai suoi incubi.

Deludente la versione in 3D. Tranne che in alcuni momenti, non aggiunge molto alla visione e sembra fatta esclusivamente per attirare pubblico e giustificare il sovrapprezzo che gli esercenti fanno pagare per gli occhiali.

domenica 19 luglio 2009

Pinuccio Lovero - Sogno di una morte di mezza estate.

Un film di Pippo Mezzapesa. (Italia 2008)

«Mi chiamo Pinuccio Lovero,
ho quarant’anni e finalmente faccio il custode a livello cimiteriale»


Qual è il sogno di Pinuccio Lovero? Essere assunto come custode del cimitero di Bitonto. Indossare la divisa d’ordinanza, con cappello e cravatta rossa. E’ un sogno che coltiva fin da bambino e nell’estate del 2007, finalmente viene assunto per sostituire per tre mesi il custode in malattia. Però dovrà accontentarsi di quello della frazione di Mariotto, che oltre ad essere più piccolo, ha un altro difetto, da quando Pinuccio Lovero è stato assunto non muore più nessuno. Sembra che gli abitanti della piccola frazione di campagna abbiano deciso di fare un dispetto a Pinuccio che da sempre desidera indossare la divisa da custode cimiteriale, e per una sorta di incantesimo, non muoiono più. Il cimitero adesso è più pulito e curato, Pinuccio si dedica con passione a lucidare lapidi e a curare i fiori, fiero e fiducioso li aspetta sulla soglia, ma niente, ormai a Mariotto non muore più nessuno. Si inizia a diffondere la voce che Pinuccio “porta bene”, gli abitanti sono contenti e solo i produttori di bare e i fiorai lo vorrebbero vedere morto o almeno trasferito!
Pippo Mezzapesa, giovane e ambizioso regista pugliese, ha trasferito la storia di Pinuccio sullo schermo facendone un documentario che ha il merito di raccontare le vicende reali di Pinuccio senza scadere nei toni della macchietta. E il rischio in questo senso, anche sulla scorta di altri esempi di cinema di ambientazione pugliese, era alto.
Pinuccio, fisico asciutto, sguardo mobile e meravigliato, personaggio poliedrico dai mille interessi passioni, è capace di spiazzare continuamente lo spettatore, raccontandoci la sua bizzarra visione della vita e dell’amore, i ricordi e i sogni per il futuro. Trasmette il mistero e il fascino della morte, e lo fa con la semplicità delle persone vere, con i suoi ragionamenti davanti alla telecamera, mettendo in gioco la sua sensibilità e la sua storia con una generosità commuovente. Il film trasferisce Pinuccio dalla stretta provincia meridionale all’universalità di un tema che da sempre incanta l’umanità e al quale ciascuno è chiamato a dare la propria risposta.

venerdì 26 giugno 2009

L’occhio tagliato del cinema.

In un cofanetto della Raro Video, l’esordio di Luis Buñuel al cinema.



Non so se il risultato sarà un’opera d’arte, ma sarà sicuramente cinema.
Cinema, nel senso che nessuna arte, nessuna scienza può farne le veci (Jean Vigo)



“Dopo la proiezione di un Chien Andalou, una cinquantina di persone si presentarono al commissariato di polizia per sporgere denuncia, affermando: «Bisogna proibire quel film osceno e crudele». Era l’inizio di una lunga serie di insulti e minacce, che mi ha perseguitato fino alla vecchiaia”. Oggi non c’è più censura di polizia ma è il mercato, dopato da cine-cocomeri e banalità varie, a tagliare fuori lo sguardo disturbante di un certo cinema, capace di mettere in crisi le solide convinzioni di chi siede in sala (o, nella versione contemporanea dello spettatore, davanti al lettore dvd). Nessun film sarà lo stesso, se vi concederete la visione degli esordi al cinema del grandissimo Luis Buñuel, e per quelli fra voi più disponibili, si attuerà una vera e propria rivoluzione dello sguardo. Un chien Andalou, L’Age d’or e Las Hurdes, tre capolavori del cosiddetto cinema surrealista, sono disponibili in un cofanetto Raro Video (www.rarovideo.com), a cura di Enrico Ghezzi e Donatello Fumarola. Un cofanetto davvero ben fatto, che contiene anche alcuni extra e un libretto con note critiche e testi, tra gli altri, di Aldo Nove, Jean Vigo e André Breton.
Tre film che, dopo ottant’anni dalle loro prime tormentate proiezioni, riescono a creare scompiglio nello sguardo di ogni spettatore, contribuendo ad una rivoluzione nell’idea stessa di cinema e di visione, che conserva ancora la sua forza. Un’esperienza che ritorna a portata di occhio, dunque.

Il primo film, Un chien andalou, è del 1928, scritto insieme a Salvator Dalì, secondo un metodo che Buñuel definiva paranoico-critico: le immagini e i sogni venivano annotati senza alcun filtro, così come emergevano nelle discussioni fra i due autori, senza un collegamento o una logica predefinita, ma privilegiando esclusivamente il loro impatto emotivo. Il risultato è molto simile alle nostre esperienza oniriche, le situazioni si succedono con lo stesso ritmo delle nostre visioni notturne, senza una spiegazione razionale. Il film inizia con una celebre sequenza in cui un uomo armato di rasoio taglia un occhio: un prologo che difficilmente lascia indifferenti, un vero e proprio shock, in cui si esalta il potere della macchina da presa, liberata dalla necessità di essere specchio fedele della realtà, capace finalmente di stravolgere il logico susseguirsi della visione. Accolto da un vasto interesse e da reazioni molto diverse fra loro, con questo film Luis Buñuel guadagnava l’ingresso nel gruppo dei surrealisti, composto in quegli anni da André Breton, Argon, Max Ernst, Man Ray, Picasso, intellettuali che avevano scelto di mettere a nudo le ingiustizie della società attraverso lo scandalo e la provocazione.

Anche il successivo film, L’Age d’Or (1930), continua ad alimentarsi di questo desiderio di dissacrare, di esplorare i limiti della rappresentazione, di turbare benpensanti e perbenisti. Anche in questo caso, il film fu accolto da violente proteste e assalti da parte di estremisti di destra alla sala in cui si proiettava, tanto da far scattare il divieto di proiezione pubblica per il film (divieto rimasto in vigore per vari decenni fino al 1980). L’Age d’or è un film sull’amore folle di un uomo e di una donna, sull’erotismo e sulle sue estreme conseguenze. Senza l’utilizzo di una struttura narrativa classica, ma attraverso il susseguirsi di visioni e situazioni esasperate come in Un chien andalou, anche in questo film Bunuel attacca da buon surrealista i pilastri della società borghese, la Chiesa, l’esercito e il patriottismo.

Las Hurdes – Tierra sin pan (1932) è il racconto della miseria e della crudeltà di una regione della Spagna, l’Estremadura, che già nel nome contiene la chiave di lettura della vita dei propri abitanti, uomini e animali, accomunati da una quotidianità misera e tragica. Girato in stile documentario, Las Hurdes è però capace di trascendere il puro racconto della realtà, diventando lo specchio dell’esistenza umana. Buñuel stesso scrive che “quelle montagne mi hanno conquistato subito. La miseria degli abitanti mi affascinava, come pure la loro intelligenza e l’attaccamento al loro paese perduto, alla loro terra senza pane. In almeno venti villaggi il pane fresco di giornata era un oggetto misterioso. Ogni tanto qualcuno portava dall’Andalusia una pagnotta di pane raffermo che veniva usata come moneta di scambio”.

Quello che accomuna questi film è la semplicità dello stile di Buñuel , come scrive Fumarola nel libretto che accompagna i dvd, l’eccentricità è tutta dentro le cose che vengono messe in scena. Buñuel non cerca la bellezza dell’immagine, non adotta uno stile sofisticato e autoreferenziale, difetto che spesso accomuna le avanguardie, ma privilegia un’essenzialità dello sguardo, che tale rimane sia quando è rivolto alla realtà sia quando, con gli occhi chiusi, si sofferma sul mondo dei sogni. La possibile chiave di lettura rimane perciò quella della seduzione: non resta che lasciarsi affascinare da uno sguardo capace di restituire l’essenza della vita, lasciarsi andare ad un’esperienza visiva che scompone, sovrappone, confonde le cose e conquista. Senza resistenze.

mercoledì 3 giugno 2009

Tutta colpa di Giuda - Una commedia con musica

Un film di Davide Ferrario. Con Kasia Smutniak, Fabio Troiano, Gianluca Gobbi, Cristiano Godano, Luciana Littizzetto.


- Cosa c’è di più triste di un carcere vuoto?
- Un carcere pieno?


L’ultimo film di Davide Ferrario è un interessante esperimento per il panorama cinematografico italiano, e anche se i risultati non sempre risultano all’altezza dei buoni propositi, finisce per farsi notare soprattutto per le sue modalità di realizzazione.
In Tutta colpa di Giuda, girato nel carcere delle Vallette di Torino, si racconta dell’esperienza di un gruppo di detenuti con il teatro e la danza. La regista teatrale Irene, interpretata da Kasia Smutniak, viene infatti invitata a condurre un laboratorio sperimentale, alla fine del quale mettere in scena la Passione di Cristo. Irene dovrà naturalmente affrontare le iniziali resistenze dei detenuti, resistenze molto blande per la verità, e soprattutto le resistenze di chi in carcere ci lavora. Questi ultimi soprattutto temono che l’irrompere del teatro, della danza e della vitalità che ne consegue, possa incrinare quell’equilibrio che faticosamente tutti ricercano e che permette di sopravvivere in un luogo del genere. Per il cappellano del carcere, inizialmente grande sostenitore dell’iniziativa, la messinscena della Passione e della morte di Cristo, sarà anche l’occasione per un acceso confronto sul senso profondo della religione e della propria vocazione. Più in generale, questa esperienza comporterà dunque per tutti i personaggi l’avvio, e per alcuni sarà la prima volta, di una riflessione sulla propria condizione esistenziale e sul proprio futuro.

Girato a metà strada fra la finzione e il documentario, e come lo stesso regista ama ripetere, Tutta colpa di Giuda è un film nel carcere e non un film sul carcere, che gioca con i toni leggeri della commedia musicale.
E’ però un film riuscito a metà, debole soprattutto nella parte di finzione, quella immaginata nella sceneggiatura per intenderci, che a volte propone situazioni che da un punto di vista narrativa mostrano una certa fatica e un’inevitabile caduta di intensità. Il film mostra le difficoltà maggiori proprio nelle parti in cui a recitare sono degli attori professionisti, a partire da Fabio Troiano, attore di buon livello quando non recita in un napoletano da avanspettacolo come in questo caso. Più in generale, alcuni appaiono non molto credibili nel ruolo che interpretano, la stessa protagonista ad esempio, finendo però per far risaltare proprio i non professionisti della scena, i detenuti, capaci di mettere in scena la loro quotidianità in cella con estrema efficacia. Molto interessante per esempio la sequenza iniziale in cui Irene intervista i detenuti che diventeranno poi i suoi attori, raccogliendo pensieri profondi, ma sempre conditi di una disarmante semplicità.
Al di là di queste suggestioni e dei risultati, la realizzazione di questo film deve essere stata un’esperienza che ha coinvolto non solo chi ha recitato davanti alla macchina da presa, creando l’occasione di un incontro reale fra persone altrimenti distanti. E questo elemento emerge costantemente durante tutta la visione, fino al suggestivo il finale in cui, a seguito dello svelamento della finzione cinematografica, Ferrario riesce a restituire con intensità la fine di una parentesi gioiosa rappresentata dalla realizzazione del film, e il ritorno alla vita “dietro le sbarre”.

La vita vera non è il cinema, purtroppo.

lunedì 18 maggio 2009

Magia Lucana (Italia, 1958).

Un documentario di Luigi Di Gianni.

Davvero le tecnologie digitali stanno contribuendo “a rendere giustizia” ad alcuni dei più importanti registi del cinema documentario italiano, un genere che per molti anni nel nostro Paese ha rappresentato non solo una palestra per giovani registi esordienti, ma anche una preziosa occasione per raccontare sullo schermo la realtà, anche quella più scomoda e fuori dal coro. Un patrimonio enorme di immagini e racconti appassionati che, scomparso all’attenzione del grande pubblico ormai da trent’anni, sta ottenendo, grazie al lavoro di studiosi e case editrici, l’attenzione che merita, ritornando ad essere un patrimonio condiviso e di nuovo fucina di giovani talenti cinematografici. Sulle pagine di Extra abbiamo già raccontato delle recenti pubblicazioni di alcuni lavori di Cecilia Mangini e Gianfranco Mingozzi. Questa settimana invece parliamo di un altro regista di documentari che, con il suo lavoro, ha contribuito a salvaguardare un patrimonio culturale importantissimo. Luigi Di Gianni è, a giusto titolo, considerato uno dei più importanti documentaristi italiani, con una lunghissima carriera come autore e docente alla Scuola Nazionale di Cinema e in alcune Università. Napoletano, Di Gianni è il rappresentante in Italia di un cinema di ispirazione antropologica, che ha trovato soprattutto nel Sud Italia e nel sentimento religioso dei suoi abitanti, il soggetto privilegiato di molti documentari.


L’occasione per parlarne è la pubblicazione in dvd del suo film d’esordio, Magia lucana girato nel 1958. Il documentario realizzato in Basilicata ricostruisce e presenta alcuni dei rituali magico-religiosi messi in atto dai contadini meridionali, veri e propri eredi di una tradizione culturale millenaria. Pur nella sua breve durata, grazie ad un utilizzo rigoroso del linguaggio cinematografico e con immagini forti e solenni, Di Gianni restituisce la forza della presenza, nella vita contadina, della magia. Con il rituale i contadini costruivano infatti una dimensione protetta, riuscendo a trovare le “soluzioni” alle difficoltà di una vita precaria e miserabile. Nell’invocazione al sole, nel lamento funebre, nei riti d’amore e di fattura, si manifestavano perciò i resti di una civiltà antichissima, che tentava di esercitare una sorta di controllo su una natura misteriosa e minacciosa.
Questo interesse per i temi della magia nasceva in Di Gianni con l’incontro con un altro grande meridionalista, l’antropologo Ernesto De Martino, che in quegli stessi anni pubblicava i risultati delle sue ricerche nel Sud Italia: Morte e pianto rituale (1958), Sud e magia (1959) e La terra del rimorso (1961). La lettura appassionante e appassionata di questi testi, spinsero alcuni giovani registi, oltre allo stesso Di Gianni, ma anche Cecilia Mangini, Gianfranco Mingozzi, Lino del Fra e Giuseppe Ferrara, ad andare sul campo per raccontare un mondo affascinante e destinato, in pochissimo tempo, a scomparire travolto dal boom economico. Questi documentari ebbero così il merito di svelare la creatività e la forza del rito che le genti meridionali opponevano alle loro misere condizioni di vita, contribuendo non solo alla salvaguardia di un patrimonio culturale, ma anche ad un ripensamento complessivo del tema del folklore: queste manifestazioni non erano più rappresentante come prove di superstizione e arretratezza, ma segni di una cultura comune e antica. Magia lucana è poi una grande prova di cinema, se è vero che a prevalere, piuttosto che quello dell’antropologo, è comunque lo sguardo del regista di cinema, di colui cioè che, affascinato da situazioni estreme e di grande impatto emotivo, prova a restituirne l’intensità attraverso le immagini: “Nel mio cinema c’è un’origine antropologica, ma successivamente, abbandonando la scientificità, sento il bisogno di abbandonarmi alle mie suggestioni e alla mia soggettività”, dichiara lo stesso Di Gianni.

Nel cofanetto, proposto dalla DocVideo di Torino e in vendita on-line, viene proposto oltre a Magia Lucana e a un libro fotografico, anche un interessante documentario di Simone Grosso, “La malattia dell’arcobaleno”, che racconta di un viaggio che Di Gianni fa nei luoghi in cui si è sviluppata la sua lunga carriera cinematografica: mentre riacquistano movimento le immagini dei suoi film, i paesi della Lucania, i vicoli di Napoli ritornano ad essere un vero e proprio paesaggio dell’anima, specchio del fascino che lo stesso regista esercita su chi lo incontra. Quello di Grosso è quindi un riuscito tentativo di ricostruire per intero il percorso umano e cinematografico di Luigi Di Gianni, e risulta così molto interessante non solo per chi si avvicina all’opera di Di Gianni per la prima volta.

Cofanetto Luigi Di Gianni
“Magia lucana - La malattia dell'arcobaleno - Libro fotografico”
per info: http://www.docvideo.it/

martedì 12 maggio 2009

Che (Usa, Francia, Spagna 2008)

Un film di Steven Soderbergh. Con Benicio Del Toro, Demiàn Bichir, Santiago Cabrera, Elvira Mínguez, Jorge Perugorría, Edgar Ramirez.

Chi lotta può perdere...
chi non lotta ha già perso!

Steven Soderbergh riesce nella non facile impresa di raccontare l’epopea della rivoluzione cubana con uno stile asciutto e rigoroso, costruendo, senza mai cedere alla retorica, il ritratto del simbolo stesso di quel movimento. Il film, uscito in due parti più per esigenze commerciali che narrative, racconta in quattro ore e mezzo, l’ascesa e la caduta di Ernesto Che Guevara.

Nella prima parte, “Che - L’argentino”, il racconto comincia infatti nel 1955 in Messico, quando il giovane medico argentino incontra Fidel Castro e con lui decide di dare concretezza ai suoi sogni rivoluzionari. Imbarcatosi insieme ad altri 81 combattenti, passerà con loro due anni nella giungla prima della decisiva battaglia di Santa Clara e l’ingresso a L’Avana. Due anni in cui le fila dei rivoluzionari si ingrossano giorno per giorno, due anni di combattimenti duri, di grandi speranze per il futuro, di morte, tradimenti e sogni di giustizia. “Che - L’argentino” è un film costruito come un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio, con continui stacchi e salti in avanti e indietro, mentre sullo schermo si alternano la quotidianità della guerriglia nella giungla di Cuba e le giornata del Che, nel 1964 ormai ministro del nuovo governo rivoluzionario, alle Nazioni Unite. Soderbergh alterna così nel racconto, forme diverse di una lotta che non si interrompe: se quelli nella giungla sono mesi vissuti con la durezza di chi rischia la vita ogni giorno per una causa più grande, resa in maniera spettacolare ed esaltate dalla visione sul grande schermo, i giorni a New York, raccontati con la scelta del bianco e nero e con un ritmo più lento, quasi riflessivo, sono invece quelli in cui l’opinione pubblica mondiale costruisce una vera e propria icona, il mito del combattente per la libertà, simbolo della volontà di riscatto degli ultimi della Terra.

Nella seconda parte, “Che – Guerrilla”, il comandante chiude invece il suo percorso rivoluzionario in Bolivia, compiendo quello che appare come un inevitabile e tragico destino, e consacrandosi come una delle figure chiave del secolo scorso. Con alcuni compagni cubani, Che Guevara tenta infatti l’impresa di esportare fuori dall’isola quel movimento rivoluzionario che lo aveva visto protagonista vincente, ma si scontra da subito con condizioni questa volta ben diverse da quelle di Cuba. Il Che, spinto da una fede incrollabile nella rivoluzione che non permette di arrendersi o arretrare dalle proprie posizioni, affronterà però fino in fondo il proprio destino.


Soderbergh dicevamo all’inizio riesce ad evitare, con assoluta maestria, le trappole che un soggetto di questo calibro comportava, riuscendo a dirigere, montare e produrre, dopo quasi 8 anni di lavoro, soprattutto una grande lezione di cinema e storia. Seduti in sala, riusciamo, grazie allo stile rigoroso, a sentirci davvero compartecipi delle vicende di Che Guevara e dei suoi compagni, dividendo con loro quella spinta ideale che li contraddiceva. Una cosa colpisce infatti i soldati governativi mandati a combattere i guerriglieri, ed è la loro determinazione, propria di chi sta combattendo per una causa che sente giusta, per la propria gente e per il proprio futuro, e non perché costretto da un ordine superiore. Anche noi possiamo in un certo senso vedere da vicino come questi uomini e queste donne sentissero come una necessità storica l’essere parte attiva di un movimento di liberazione che non era possibile rimandare oltre e che doveva, secondo le intenzioni di Che Guevara, investire l’intero continente. Un grandissimo Benicio del Toro, con uno stile di recitazione altrettanto aderente alla realtà e privo di retorica, contribuisce a restituire questa sensazione di vicinanza con un personaggio leggendario, che scelse di non arrendersi mai. Al di là dei giudizi storici, rimane l’intenso racconto della determinazione di un uomo, dei suoi sogni e della sua capacità di essere duro, senza perdere mai la tenerezza.

martedì 14 aprile 2009

Gran Torino (USA 2008)

Un film di Clint Eastwood. Con Clint Eastwood, Bee Vang, Ahney Her, Christopher Carley, Austin Douglas Smith, John Carroll Lynch.

Avete mai fatto caso che ogni tanto
si incontra qualcuno che non va fatto incazzare?
Beh, quello sono io.

Clint Eastwood si dimostra ancora una volta un grandissimo regista. Gran Torino è un film dallo stile rigoroso, senza alcuna sbavatura, appassionante proprio nella sua essenzialità. E nell’universalità dei temi che affronta.
Clint Eastwood costruisce un personaggio dalla personalità complessa, dominato dall’odio nei confronti di tutti ma capace poi di gesti di una sorprendente umanità. Il protagonista del film, Walt Kowalski, infatti è un veterano della guerra in Corea, che a distanza di cinquant’anni, ormai vedovo, continua la sua personale guerra contro tutto e tutti. Rimasto solo nel suo vecchio quartiere, tormentato dal passato, ha fatto di sé stesso una sorta di baluardo contro gli immigrati (buoni o cattivi) e contro qualsiasi cambiamento (quelli positivi e quelli negativi). Gran Torino affronta il tema della vita e della morte, visto dal particolare punto di vista di Walt Kowalski, un vecchio sconfitto dalla vita, incapace di accettare la fine delle sue certezze, condensante nella cura maniacale che ha per la sua macchina, una Ford Gran Torino, a cui da operaio ha montato il volante nel 1972. E’ un mondo impossibile da accettare, e Walt si limita a guardarlo, e odiarlo, seduto sulla sua veranda “con una birra in una mano e il fucile nell’altro”. Non c’è tregua nelle sue giornate, non c’è la capacità di vivere veramente, anche il proprio dolore, almeno fino a quando un ragazzino e la sua famiglia, non a caso immigrati asiatici, saranno l’occasione preziosa per riscattare l’odio di una vita intera: Walt, abituato a combattere, questa volta potrà farlo per la vita e non per dare la morte.
Lui che non è riuscito ad essere un vero padre per i suoi due figli, riuscirà ad esserlo finalmente, e inaspettatamente, per un ragazzino. E così vivrà finalmente quella redenzione che ha inseguito e aspettato per tutta la vita.

martedì 31 marzo 2009

L'onda (Die Welle – Germania 2008)

Un film di Dennis Gansel. Con Jürgen Vogel, Frederick Lau, Max Riemelt, Jennifer Ulrich, Jacob Matschenz, Christiane Paul.


Quello che manca alla nostra generazione è un obiettivo comune,
qualcosa che crei coesione.

Qualcosa andrà storto in questa storia. Lo intuisci dallo sguardo determinato di Rainer, insegnante di liceo con un passato da attivista politico; lo leggi nei volti di alcuni dei suoi allievi, quelli più determinati a seguire il professore in un insolito esperimento scolastico: riprodurre, nel corso di una settimana, i meccanismi che portano all’instaurazione di una sorta di dittatura. L’onda, il movimento che alunni e prof mettono in piedi durante le lezioni, appare fin da subito qualcosa di diverso da un compito in classe, capace di annullare in breve tempo le differenze di vedute e gli stili dei ragazzi, spingendoli a creare un gruppo coeso e omogeneo. Un gruppo in cui tutti lavorano per uno scopo comune, affermare la stessa supremazia dell’Onda, e che finisce per dare ai suoi componenti la sensazione, molto pericolosa, di poter ottenere tutto se è il gruppo a volerlo. Il gioco, si sa, è una cosa seria e così, chi non ne accetta le regole è tagliato fuori: non c’è posto nell’Onda per l’anticonformismo e le scelte solitarie. Questi ragazzi si fidano ciecamente del professore, ma soprattutto si fidano di sé stessi, e accettando quella che all’inizio sembrava essere solo una provocazione, finiranno per vivere in prima persona una catena di eventi travolgenti, di cui però perderanno il controllo. L’ambientazione poi in una scuola tedesca rende ancora più evidenti le implicazioni storiche e morali di un film come L’Onda. Come nel recente The reader, anche in questo caso giovani tedeschi sono chiamati in un certo senso a fare i conti con la storia recente del proprio Paese e con gli errori/orrori dei loro nonni. Quello che colpisce, oltre all’analisi delle condizioni sociali ed economiche che portano dritti verso la dittatura, sono i veloci cambiamenti che questo esperimento genera in ragazzi apparentemente normali, il loro immediato e profondo coinvolgimento psicologico. L’Onda funziona come una sorta di catalizzatore di pulsioni e ansie che, ce ne rendiamo subito conto, i giovani protagonisti portano già dentro. Nonostante lo stile del regista tenda a spiegare troppo e in un certo senso a lanciare un monito soprattutto ai giovani spettatori, L’Onda rimane un’interessante sfida per chi crede fermamente che certi orrori siano definitivamente confinati nella memoria storica e che una nuova dittatura non potrebbe più instaurarsi, almeno nell’Europa di oggi. Credo che alla fine, invece, almeno il dubbio che la Storia possa tragicamente ripetersi, anche con l’apparente volontà della maggioranza, almeno questo dubbio, nessuno potrà ignorarlo.

venerdì 20 marzo 2009

The Wrestler (USA 2008)

Un film di Darren Aronofsky. Con Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Mark Margolis, Todd Barry.


Vale la pena continuare a combattere,
anche se perdi tutto quello che ami.

Randy "The Ram" Robinson ha sulla pelle i segni di una lunga carriera in quella strana disciplina, a metà fra spettacolo e sport, che è il wrestling. A vent’anni dal suo più memorabile incontro, per tanti è ancora un eroe, di cui ricordare le gesta.
Oggi la carriera di Randy è ormai alla fine, i riflettori illuminano non più gli scintillanti ring delle grandi città ma solo squallide palestre di cittadine di provincia dove ad esibirsi sono ormai vecchie glorie del passato e giovani lottatori alle prime armi. Inesorabile, la vita vera riprende posto in primo piano, con il suo copione fatto di pochi soldi che non bastano a pagare l’affitto, lunghe giornate di solitudine che si fa fatica ad affrontare, con il rammarico per una figlia abbandonata tanti anni prima e con cui è impossibile ricostruire un rapporto (ottimamente interpretata da Ewan Rachel Wood). A questo punto della sua vita è arrivata dunque quella sconfitta che sul ring per lui, idolo del pubblico, non arrivava mai.

Il regista Darren Aronofsky costruisce, con uno sguardo discreto e al servizio dell’intensità di questa storia, il ritratto di un eroe vinto, che fino alla fine non abbandona il disperato tentativo di dimostrare, innanzitutto a se stesso, di essere ancora vivo. Ci racconta il momento in cui Randy non può più evitare di fare i conti con quello che ha scelto di essere, il momento in cui con occhi spalancati osserva la miseria, non solo materiale, della sua esistenza. Non sono conti semplici da affrontare, e quando prova a tirare la somma il risultato è una solitudine senza scampo, squallida, molto lontana dalla luce dei riflettori. Randy i conti li fa utilizzando gli strumenti che ha a disposizione: con il suo corpo, “pezzo di carne maciullata” dagli anabolizzanti e dai tanti colpi ricevuti, e con l’unica cosa che in fondo sa che gli è riuscita, combattere sul ring. Non si rassegna ad andare in “pensione”, cerca disperatamente una nuova possibilità nell’urlo di eccitazione che arriva, come un’onda travolgente, dalla platea. E’ per gli spettatori che si combatte nel wrestling, non certo per sconfiggere l’avversario, piuttosto per quella sottile eccitazione che dà la folla urlante, gli occhi e i riflettori puntati sul ring.

Ad un tratto, e sarebbe per noi spettatori davvero una consolazione, Randy incontra Cassidy, una spogliarellista, interpretata da una splendida Marisa Tomei. I due in fondo si assomigliano, anche lei vive in un mondo finto come quello di Randy. Ma per Cassidy il confine tra la realtà e la finzione dello spettacolo in un night club è netto, e lei ha scelto con determinazione da quale lato della vita stare. Così i loro destini si incrociano solo per qualche breve momento in cui la felicità sembra a portata di mano, sembra qualcosa di altrettanto eccitante. L’amore non basterà a redimere Randy, che, a testa alta come ha sempre fatto, affronterà il suo ultimo incontro, il più importante, quello con sé stesso.

The wrestler è un film capace di trasmette la struggente bellezza che nasce dal contrasto fra la durezza della vita e la dolcezza di un’ostinata voglia di vivere al massimo, sempre. Mickey Rourke, con addosso il pesante fardello della sua travagliata storia personale, dà splendidamente corpo e volto ad un personaggio fiero e ostinato, destinato a rimanere nel cuore di molti.

sabato 7 marzo 2009

The Reader - A voce alta (Usa - Germania 2008)

Un film di Stephen Daldry. Con Kate Winslet, Ralph Fiennes, David Kross, Lena Olin, Bruno Ganz.


- Perché non iniziare provando a dirmi la verità.
- Non l’ho mai detta a nessuno.
- Forse dovrebbe.


Che cosa nasconde lo sguardo duro di Hanna Schmitz, bigliettaia di tram in una cittadina della Germania sul finire degli anni cinquanta? C'è qualcosa di misterioso nel suo passato, qualcosa che le impedisce di sorridere, e abbandonarsi fra le giovani braccia di Michael, suo giovane e appassionato amante, e solo per lei devoto lettore di classici del teatro e della letteratura.
The reader è la storia di un amore mancato e di una redenzione impossibile: troppo ingombrante quel Passato che preme per ritornare e ridiventare Presente, e Futuro dei protagonisti di questo film. Quella che potrebbe essere la storia di "iniziazione" all'amore per un ragazzo con una donna più grande, si rivela invece il racconto di una passione capace di coinvolgere totalmente i suoi protagonisti.
E a far diventare questo incontro la storia di un'ossessione, che durerà per tutta la vita.
Molto presto quell'ingombrante passato arriva, ed è quello il punto in cui noi, seduti in sala, sentiamo quanto sarebbe stato bello (e rassicurante) se The reader fosse solo un film su un'intensa e appassionata storia d'amo-re. Quanto sarebbe comodo lasciarci andare alla passione travolgente di cui sono capaci Michael e Hanna, e con loro godere di quell’amore e di quell’estate del 1958.
Che si tratti di un amore impossibile lo capiamo presto, lo intuiamo nel volto silenzioso di una splendida Kate Winslet, e sappiamo che questa storia di un amore estivo, non potrà durare anche per il successivo inverno. Bisogna riconoscere al regista Stephen Daldry il merito di non aver tentato con questa vicenda di percorrere una strada semplice, che così spesso ci capita di vedere al cinema, quella in cui l'amore alla fine trionfa. Han-na non potrà fuggire dal proprio destino.
The reader è un film che riesce a sorprendere costantemente lo spettatore, spiazzando le aspettative e finen-do per porre degli interrogativi piuttosto che fornire risposte semplici. Mano a mano che la storia si evolve infatti i temi che emergono sono tanti e coinvolgono a più livelli i protagonisti. Alla storia d'amore, che fin dall'inizio mostra il suo carattere infatti, si affiancano temi come quelli del perdono e del ricordo. L'idea stes-sa di cosa sia giusto o meno viene messa in discussione dalla storia dell'ex-nazista Hanna Schmitz: la legge de-gli uomini è chiamata a giudicare, e per giudicare bisogna semplificare quello che semplice non è. Michael dovrà fare i conti con il senso di colpa, condividendolo con i suoi compatrioti, dovrà misurarsi con il desiderio di vendetta, con la lacerazione provocata dai sentimenti. Che spazio possono avere i sentimenti quando la Giustizia deve fare il suo corso? Esiste una redenzione possibile per i propri crimini? Oppure i morti ormai sono tali, e niente li farà tornare in vita?

E così come ho premesso, le domande alla fine superano di gran lunga le risposte.

domenica 1 marzo 2009

Frost/Nixon - Il duello (USA 2008)

Un film di Ron Howard. Con Frank Langella, Michael Sheen, Kevin Bacon, Rebecca Hall, Toby Jones, Oliver Platt.

“Al popolo americano serve una condanna.
Vorrei dare a Nixon il processo che non ha avuto”

Non sono un appassionato di boxe e questo non è film su un pugile alla fine della sua carriera.
Ma credo che Ron Howard sia riuscito a cogliere l’essenza di quei momenti in cui due uomini si affrontano sul ring, fin dal primo momento, quello in cui gli avversari si scrutano, valutandosi a vicenda, in attesa che uno dei due sferri il primo affondo. Seguendone i colpi, le azioni, fino a raggiungere quello stordimento che dà vincere l’incontro, o finire al tappeto. Frost/Nixon è un film davvero sorprendente, la storia di un grande duello, da godersi nei dettagli, negli sguardi dei due protagonisti, nell’intensa fotografia che illumina i volti. Il ritmo narrativo del film di Ron Howard segue quello della preparazione del duello e dello scontro finale, riuscendo a non far rallentare mai il ritmo, anzi raggiungendo nella parte finale un pathos notevole che ci si aspetterebbe piuttosto da un thriller che da un film “politico”.
La storia è quella di una sfida: potrà David Frost, conduttore di talk-show, intervistare l’ex-presidente degli Stati Uniti, Nixon, repubblicano di ferro, costretto alle dimissioni dopo il suo coinvolgimento nella scandalo Watergate. Nessuno, produttori e giornalisti, sembrare credere in quella che si rivelerà uno dei più grandi eventi della storia della televisione. “Frost non è al suo livello... Lei potrà ricostruire tutta la vicenda a suo vantaggio”: è per questo (e per un po’ di soldi, a dire tutta la verità) che Nixon accetta di rompere il silenzio in cui si è rifugiato dopo lo scandalo. Quelle quattro ore di interviste serrata, dura nei toni e nei contenuti, finirono invece per raccontare una significativa storia su che cosa è il Potere, su quello a cui si è disposti a rinunciare per ottenerlo e conservarlo. Un racconto sulla mancanza di scrupoli e sullo spirito di sopravvivenza a scapito degli altri, che (purtroppo) conserva intatta la sua forte attualità.
Ma Frost/Nixon è anche una riflessione sul potere dell’inquadratura (non solo quella televisiva), sulla possibilità di cristallizzare le emozioni e svelare il vero volto dei protagonisti della Storia. Nell’impietoso primo piano di Nixon, nel sudore che gli imperla il labbro superiore, è davvero possibile trovare la rappresentazione del tormento che si nasconde dietro la vita pubblica. Questo film, specialmente nel finale, è capace di rivelare anche un altro tipo di potere: quello che, con la macchina da presa, ha il regista. Potere offerto allo spettatore, che grazie al cinema diventa capace di leggere oltre il visibile.
Per gli spettatori italiani possiamo lanciare l’appassionante domanda: chi vorreste vedere intervistato da David Frost? Ci vuole qualcuno capace di essere combattivo, dotato di cinismo e anche con un bel po’ di segreti di cui parlare. Si accettano candidature.

martedì 17 febbraio 2009

Il curioso caso di Benjamin Button (The Curious Case of Benjamin Button - USA 2008)


Un film di David Fincher. Con Brad Pitt, Cate Blanchett, Tilda Swinton, Julia Ormond, Jason Flemyng.

Andiamo tutti nello stesso posto,
solo che ognuno ci arriva percorrendo la sua strada.

Ci sono film di cui non è semplice raccontare, perché troppo ricchi di spunti narrativi e la scelta di uno dei molteplici aspetti che lo compongono non è una scelta indolore. Si avrà sempre la sensazione di aver trascurato qualcosa che valeva la pena affrontare.
Il curioso caso di Benjamin Button è uno di questi. Il regista David Fincher (Fight Club, Seven, Aline 3) costruisce un film ambizioso nelle tonalità narrative e dalle non trascurabili implicazioni esistenziali.
La storia è quella di Benjamin Button, nato il giorno in cui finiva la Prima Guerra Mondiale, con una insolita malformazione e un triste destino: il suo corpo presenta tutti i sintomi di una vecchiaia precoce, artrite, sordità, deformazioni, ecc. Sembra destinato a una rapida morte, e viene abbandonato da suo padre. Mentre New Orleans festeggia la fine dell’incubo della guerra, da cui molti giovani non sono più tornati, Benjamin comincia ad affrontare un’esistenza fuori dall’ordinario, raccolto e adottato dall’inserviente di una casa di riposo (guarda un po’), sopravvive e, mentre gli anni passano, il suo corpo ringiovanisce e acquista vigore. Ma per Benjamin il tempo è un orologio che scorre al contrario, e la sua storia è quella che sta nei suoi incontri. E’ il racconto di un mondo visto con gli occhi di chi, mentre accumula esperienze e incontri, vede i suoi affetti invecchiare e morire. E’ il racconto di una storia d’amore che dura una vita intera, fino alla fine, ma che può realizzarsi in pieno solo quando i protagonisti si incontreranno all’età giusta. “Abbiamo quasi la stessa età adesso. Ci incrociamo a metà strada”.
Vi sorprenderete commossi a ripensare alla vostra stessa quotidianità, a quel desiderio di immobilizzare lo scorrere delle lancette. E vale anche per chi queste lancette le vede andare al contrario. L’inesorabilità del tempo, quando diventa un elemento concreto, illumina gli eventi della vita con una luce particolare, se è vero che “nella vita niente dura per sempre. E che questo è un gran peccato”.
Da un punto di vista cinematografico, Il curioso caso di Benjamin Button è un film che dimostra la maestria di un regista come Fincher, che sa arricchire la sua narrazione di trovate anche inedite, come il racconto dell’uomo colpito sette volte da un fulmine. E che mostra l’altissimo livello raggiunto dalla tecnologia digitale che ha permesso di far interpretare a Brad Pitt praticamente tutte le età del suo personaggio (solo il bambino alla fine non è lui).
Un film così non poteva non essere che un super candidato ai prossimi Oscar con ben 13 nomination, assolutamente meritate.

sabato 7 febbraio 2009

Un matrimonio all'inglese (Easy Virtue - Gran Bretagna 2008)

Un film di Stephan Elliott. Con Jessica Biel, Colin Firth, Kristin Scott Thomas, Ben Barnes, Kimberley Nixon.


Veronica: È vero che hai avuto così tanti amanti come dicono?
Larita: Ma no, no… certo che no… nessuno di loro mi ha amata veramente.


Cosa provocherà l’arrivo della bellissima ed emancipata Larita, in una nobile, e decaduta, famiglia inglese? La neo moglie americana dell’ingenuo rampollo di famiglia sarà il detonatore di una situazione in cui erano già presenti tutti gli elementi per una fragorosa esplosione. Che, puntuale, alla fine arriva insieme a più di un insegnamento.
Aspettatevi un film dai dialoghi serrati, tipici di una certa commedia americana, conditi dalla vena tutta inglese di un humour corrosivo, fatto di battute e rimandi ai rispettivi luoghi comuni. Il ritmo davvero non manca, e il tempo in sala volerà senza pesare. Come in una serrata partita di tennis, così ciascuna delle due protagoniste reagirà, colpo su colpo, alle provocazioni e alle cattiverie dell’altra. A noi spettatori il compito di seguire le vicende, senza avere alcun dubbio su chi sostenere, ma apprezzando i buoni colpi di chi gioca in casa.
Un matrimonio all’inglese è un film narrato costantemente sul filo delle opposizioni e delle differenze: la modernità che arriva con il rombo dei motori contrapposta all’immobilità silenziosa della vita nella campagna inglese; i tuoni della Grande Guerra e le nuove relazioni fra i sessi contro gli antiquati rapporti sociali e il perbenismo di facciata della nobiltà; una gioventù sfrontata contro la rigida vecchiaia. Contrapposizioni incarnate, e agite, da due donne che, seppur molto diverse fra loro, si dimostrano entrambe combattive e decise a non cedere una la propria emancipazione, l’altra la sicurezza che le danno la consuetudine e l’abitudine. In mezzo a questo scontro finirà tutto il nucleo familiare, servitù compresa, e niente sarà più come prima.
Un matrimonio all’inglese (ma con un piglio americano) è perciò un film sulle molteplici possibilità di una ostinata, e fallimentare, resistenza al cambiamento. Alla fine chi questo cambiamento lo saprà affrontare, anche non riuscendo a dominarlo completamente, ne trarrà le conseguenze migliori. E potrà guardare al proprio destino con il sorriso beffardo di chi sa di lasciarsi alle spalle un’esistenza grigia, monotona e angosciante.

In questa partita, in cui in palio c’è la propria felicità, c’è posto per un'unica vincitrice.

venerdì 30 gennaio 2009

Milk (USA 2008)

Un film di Gus Van Sant. Con Sean Penn, Emile Hirsch, Josh Brolin, Diego Luna, James Franco.

Oggi compio quarant’anni,
e non ho mai fatto nulla di cui sentirmi fiero.

Non delude le aspettative il nuovo film di Gus Van Sant, regista americano autore di film apprezzati da pubblico e critici, capace di film molto raffinati nella scrittura cinematografica come Elephant o il più recente Paranoid Park, e al tempo stesso di opere diciamo “di casseta”, come Will Hunting – Genio ribelle o il remake di Psycho. Ma non è mai banale, di questo possiamo stare certi.
Questa volta il soggetto scelto da Van Sant è il racconto appassionato dell’appassionante parabola di Harvey Milk, attivista gay americano assassinato nel 1978. Il film ne racconta gli ultimi dieci anni di vita; gli ultimi ma decisamente i più intensi. Milk infatti, sul finire degli anni ’70, divenne il simbolo di una coraggiosa lotta per l’affermazione dei diritti civili dei gay americani.
Dopo un’esistenza nell’ombra, Harvey, interpretato da un ispirato Sean Penn, deciderà, o in qualche modo finirà per a diventare il capofila di una grande lotta sociale che lo porterà ad essere eletto come consigliere della città di San Francisco. Per la prima volta, negli Stati Uniti, un omosessuale dichiarato ricopriva una carica pubblica. Tutta la vicenda di Milk si gioca sul confine fra dimensione pubblica e dimensione privata, attraverso la rivendicazione orgogliosa della propria identità e nel passaggio da una esistenza di sotterfugi e paure ad una vissuta pienamente, quasi urlata. In questo risiede il fascino di un personaggio che, evidentemente, può ancora essere un simbolo per chi rivendica il diritto di dichiarare alla luce del sole il proprio essere, senza paura. Il film riesce a sollevare dunque questioni di assoluta attualità, basti pensare a tutte le polemiche, le minacce e le violenze che precedono ogni manifestazione omosessuale. In quelle occasioni si sente spesso ripetere che gli omosessuali non dovrebbero dare scandalo sulla pubblica piazza, non potendo evitare di “essere come sono”, dovrebbero viversi in privato la propria condizione. Questa vicenda, e questo film, sono invece un chiaro invito ad uscire allo scoperto, emancipandosi dalle proprie paure e dalla sensazione di pensarsi sbagliato. E così diventa anche una grande lezione per tutti gli altri, su cosa possiamo intendere come tolleranza e accettazione piena della diversità. La vicenda di Milk rende poi evidente che, difendendo i diritti di coloro che non ne hanno, si finisce sempre per tutelare la libertà di tutti.
Da un punto di vista più strettamente cinematografico, oltre alla grandissima prova attoriale di Sean Penn che meriterebbe davvero di vincere l’Oscar, vorrei sottolineare come Van Sant riesca a valorizzare i molti materiali d’archivio (telegiornali, filmini amatoriali in super8) legandoli alle sue immagini dai bei colori anni ’70. Insieme alla recitazione, con vero tocco d’autore, questi elementi contribuiscono ad aumentare la credibilità di una regia mai sopra le righe e di grande efficacia narrativa.

sabato 24 gennaio 2009

Firenze di Pratolini (Italia, 1959), un documentario di Cecilia Mangini.



Il cinema di Cecilia Mangini è un lungo viaggio attraverso l’Italia:
Firenze di Pratolini è una straordinaria partenza.

Continua l’opera meritoria della casa editrice salentina Kurumuny che, pubblicando una serie di documentari italiani, ne conserva la memoria e offre l’occasione di guardare film altrimenti introvabili. Quello di cui ci occupiano questa settimana è il documentario realizzato dalla regista Cecilia Mangini nel 1959, a Firenze, con il commento dello scrittore Vasco Pratolini.
Firenze di Pratolini è un ritratto della città toscana tracciato con uno stile ben lontano dall’enfasi che ci si potrebbe aspettare da un documentario turistico. Quello che vogliono raccontare i suoi autori è infatti il volto nascosto della città: quello dei quartieri popolari, di un sistema sociale che stava scomparendo, ma che riesce a rivelare nelle immagini tutta la sua forza di coesione di solidarietà fra gli abitanti. Scrive Mirko Grasso nel suo saggio, che in questo film Pratolini racconta infatti la sua Firenze, quella popolare, altamente dignitosa nella sua quotidianità e povertà, sapientemente filmata dalla regista. Immagini e commento stanno dalla parte dei giovani, dei poveri, dei vecchi, delle ragazze, degli straccioni che popolavano quella Firenze; e nello stile complessivo del documentario non si avverte mai una separazione fra chi osserva e chi viene rappresentato sullo schermo. Questo documentario, e tutta l’opera di Cecilia Mangini, si inscrivono in un più generale movimento di rinnovamento per il cosiddetto cinema della realtà nel nostro Paese. Il secondo dopoguerra rappresenta infatti il momento in cui il cinema assume in pieno il compito di mostrare il volto reale dell’Italia: proprio quella che il regime fascista, con la sua propaganda, aveva tenuto ben nascosta. Un’Italia povera, disperata, emarginata ma vitale, appariva per la prima volta sullo schermo, prima con i capolavori del Cinema neorealista di De Sica (per citare solo un nome), film che suscitarono ostilità e tentativi di censurare quello che veniva considerato uno scandalo: i panni sporchi dovevano essere lavati in famiglia e non sullo schermo cinematografico. Quando poi, alcuni anni dopo, quella spinta del grande cinema andava esaurendosi, spinta in certo senso sovversiva perché in grado di scandalizzare l’opinione pubblica e mettere in crisi i modelli dominanti, toccherà ad un rinnovato cinema documentario raccoglierne il testimone. Vero e proprio erede del Neorealismo, il documentario italiano infatti continuò a raccontare l’Italia, già a partire dagli anni ’50, anche e soprattutto nei suoi aspetti più duri. Il documentario perciò dimostrava di essere uno strumento efficace di scoperta di quei lati nascosti della società e al tempo stesso occasione per una denuncia di quella condizione di marginalità. Un nuovo mondo appariva per la prima volta sullo schermo, ed era il Sud magico, arretrato, schiacciato dalla miseria, ancora vitale nelle sue manifestazioni culturali, raccontano ad esempio da Vittorio De Seta, Luigi Di Gianni, Lino Del Fra, Gianfranco Mingozzi. Ma ad essere raccontate erano anche le grandi città del Nord industrializzato, i nuovi rapporti sociali e le vecchie sacche di povertà, descritte, tra gli altri, da autori come Ansano Giannarelli e Florestano Vancini.
L’opera della regista pugliese Cecilia Mangini, e di suo marito Lino Del Fra con il quale ha condiviso l’intera carriera cinematografica, ben si inserisce in questo panorama. Tutta la sua opera mantiene costante il tentativo di svelare i meccanismi che soggiacevano al cosiddetto boom economico, nelle periferie delle grandi città industrializzate così come in quelle del Sud povero, erede di antiche tradizioni culturali. E’ così che i protagonisti dei suoi film sono proprio quelli che rimanevano sempre ai margini di questo miracolo: spettatori impotenti dell’arricchimento generale, oppure pedine inconsapevoli di meccanismi economici, come i tantissimi emigranti meridionali. Cecilia Mangini e gli altri documentaristi italiani, dimostrarono che il cinema poteva davvero diventare strumento di partecipazione civile alla vita sociale e culturale del proprio Paese, dando voci e immagini ad un mondo di emarginati, ma al tempo stesso raccontando il desiderio di affrancarsi da quella condizione. E’ per questo che questi film conservano ancora oggi una grande forza e rappresentano una lezione per chi ha a cuore il racconta della realtà.
Scrive Grasso che: “Queste immagini parlano di un mondo ormai scomparso. E non è un solo il mondo del lavoro artigianale, quello dell’arte di arrangiarsi e della miseria quotidiana, ma è anche il mondo in cui, nonostante le censure e l’oppressione, si lottava per un futuro migliore”.
Non con la nostalgia per un mondo perduto dunque si possono guardare questi film ma con il desiderio di conoscere un mondo di cui dovremmo continuare a sentirci in un certo senso eredi.


Andrea Vannini, Mirko Grasso
Firenze di Pratolini. Un documentario di Cecilia Mangini, Edizioni Kurumuny, 2008.
Per info: www.kurumuny.it

venerdì 16 gennaio 2009

Me and You and Everyone We Know (USA, Gran Bretagna 2005)

Un film di Miranda July. Con John Hawkes, Miranda July, Miles Thompson, Brandon Ratcliff, Carlie Westerman, Natasha Slayton, Najarra Townsend, Hector Elias, Tracy Wright.


C’è qualcosa in questo film, qualcosa che lo rende attraente.
Sarà la semplicità della storia di una donna, Christine, sognatrice ma mai sdolcinata, ad affascinare e coinvolgere? O saranno le tante situazioni che si intrecciano nello spazio di un quartiere, la cui complessità è restituita con garbo e senza mai clamore? Tutte ci sembrano accomunate da una profonda solitudine, alla quale ciascuno prova a dare la sua risposta, a partire proprio dalla protagonista intenta a raccogliere la poeticità di un incontro, quello con Richard, commesso di un negozio di scarpe, divorziato e padre di due figli. La regista riesce a prendersi cura di queste vicende con intelligenza, così che ognuno di noi possa sentirle vicine alla propria esperienza.
Oppure sarà la delicata poesia che emerge dalle immagini che la bravissima Miranda July, regista e interprete di questo film, sa scegliere con estrema cura. Notevolissime, da questo punto di vista, tutte le scene in cui Christine, la protagonista aspirante video-artista, utilizza la propria telecamera proprio per raccontare immaginarie e struggenti storie d’amore e solitudine.
Bellissima poi la sequenza in cui Christine e Richard, dopo essersi conosciuti nel negozio di scarpe, percorrono un pezzo di strada insieme, stanno andando ciascuno verso la propria auto, ma quel tratto di strada fatto insieme diventa una metafora di un intensa quanto rapida storia d’amore, destinata a nascere e finire nel giro di un paio di isolati. Magia del cinema!
Un amore che finisce, o che inizia di nuovo, ma che di certo non è stato vano, perché come succede spesso proprio con le cose più semplici, è riuscito a rendere più leggero quel tratto di strada fatto insieme.

Saranno perciò veri tutti questi ingredienti, ma è certo che, alla fine, questo film non tradisce l’investimento emotivo che si fa guardandolo lasciandosi trasportare nel mondo così come lo vede la nostra Miranda July.
Dopo un breve passaggio nei cinema qualche tempo fa, questo film è oggi disponibile in dvd e vale la pena cercarlo e trovarlo!

venerdì 9 gennaio 2009

Madagascar 2 (Madagascar: Escape 2 Africa - USA 2008)

Un film di Eric Darnell e Tom McGrath.



Abbiamo una notizia buona e una cattiva:

quella buona è che stiamo per atterrare,

quella cattiva è che sarà un atterraggio di fortuna!



Madagascar 2 è uno di quei film capaci di non scontentare nessuno, sia fra gli spettatori più piccoli che fra gli adulti (molto spesso, accompagnatori più o meno felici dei primi).

I più piccoli, innanzitutto, troveranno una serie di elementi a cui appassionarsi nella storia dei simpatici protagonisti, i 4 animali che nel primo episodio scappano dallo zoo di New York e che questa volta sono alle prese con il tentativo di ritornare negli Usa. Il loro aereo pilotato da spassosissimi pinguini, manco a dirlo sarà costretto ad un atterraggio di fortuna nel cuore dell’Africa. Per Alex il leone, Marty la zebra, Melman la giraffa e Gloria l'ippopotamo sarà questo il vero ritorno a casa, nella casa dei propri genitori, l’Africa di cui conservano un istintivo ricordo.

Ma le cose non sono così semplici e le avventure non mancheranno: come in ogni buona “storia di formazione”, toccherà ad Alex dimostrare di essere capace di assumersi un compito e portarlo a termine, salvando la sua ritrovata famiglia e diventando finalmente adulto, accettato dai suoi simili. Anche gli altri tre dovranno portare a termine una loro personale “missione”, imparando ad accettare innanzitutto se stessi, riconoscendo i propri limiti e i propri difetti. E su questa consapevolezza nuova costruire un rapporto più sincero e franco con i propri compagni di avventure.

Quindi, se per gli spettatori più giovani valgono soprattutto gli aspetti più emotivi della trama, il riconoscere i propri limiti e farli diventare le proprie risorse, oppure costruire un nuovo rapporto con i propri amici, per gli adulti, invece ci sono altri elementi a rendere questo film interessante. L’intreccio, lo abbiamo visto, non riserva grandi sorprese per gli spettatori abituali di film d’animazione e no, ma in Madagascar 2 non mancano soprattutto le occasioni per ridere, anche di gusto. Rispetto al precedente episodio della serie, questa volta gli autori hanno decisamente spinto sull’acceleratore del ritmo comico, costruendo moltissime gag e puntando su alcuni personaggi assolutamente riusciti. Oltre ai pinguini (che rimangono i miei preferiti) credo si possa incoronare Re Julien, il sovrano dei lemuri, come vero e proprio mattatore di questo film, capace com’è di battute di una comicità surreale, che probabilmente non diranno molto ai bambini in sala, ma come ad esempio nella sequenza in cui convince tutti della necessità di sacrificare la giraffa Melman nel vulcano, faranno ridere i più grandi. Re Julien sa mettere bene in evidenza i tic e le manie degli animali, così simili a quelli degli uomini. Stessa presa in giro che tocca infatti ai turisti newyorchesi persi nella giungla, che però sapranno rivelarsi simpatici nonostante i capricci e i vizi.

Un film capace di non scontentare nessuno dunque, e se figli o nipoti vi chiederanno di accompagnarli al cinema, potrete accontentarli senza timore di annoiarvi.