venerdì 12 novembre 2010

Con ostinata passione. Il cinema documentario di Cecilia Mangini

Italia. Seconda metà degli anni Cinquanta. Non molto tempo è trascorso dalla fine della Seconda guerra mondiale eppure le ferite e le distruzioni del conflitto iniziano ad essere un ricordo. Il cambiamento si respira nell'aria. Il benessere sembra finalmente alla portata di tutti e gli spensierati anni del boom economico sono alle porte.

A raccontare, con spirito critico, quella stagione così ricca di avvenimenti, tensioni, cambiamenti, c’è un piccolo gruppo di registi cinematografici che fanno del documentario un vero e proprio strumento di appassionata lotta culturale e sociale. Cecilia Mangini è una di questi. Sempre testarda, orgogliosamente anticonformista, la regista pugliese ha contribuito, nel corso della sua carriera, a costruire al cinema il ritratto ricco di umanità di un’Italia diversa da quella dei racconti ufficiali; di un mondo che scompariva, incapace di resistere all’avanzata del progresso, ma che aveva ancora “qualcosa da dire”.

Quelle cose che ancora oggi il cinema di Cecilia Mangini, non solo preziosa testimonianza di un mondo ormai lontano nel tempo, dimostra di poter offrire a chi ha cuore il racconto del presente.



Gianluca Sciannameo (Mola di Bari, 1978), giornalista e critico, ha pubblicato la monografia Nelle indie di quaggiù. Ernesto De Martino e il cinema etnografico (Palomar, 2006) e altri saggi sul documentario italiano. Esperto di produzione low-budget e autore di documentari sociali, nel 2005 ha conseguito la specializzazione di producer di documentari. Svolge attività di formatore in laboratori di cinema e fotografia e come docente esterno ha insegnato nei corsi di cinema dell’Università della Basilicata e dell’Università di Bari. Nel 2010 ha fondato Camera a Sud, cooperativa di produzione audiovisiva.


Cecilia Mangini (Mola di Bari, 1927) è una delle più importanti esponenti italiane del cinema documentario. Esordisce nel 1958 con Ignoti alla città e, successivamente, firma capolavori come Stendalì-Suonano ancora (1960), La canta delle marane (1961), All'armi siam fascisti (1962 - con Lino Del Fra e Lino Miccichè), Essere donne (1965). Ha diretto oltre 40 documentari, realizzato reportage fotografici, firmato sceneggiature di film. Attualmente vive a Roma.

lunedì 28 giugno 2010

Il segreto dei suoi occhi (El Secreto de Sus Ojos - Argentina, Spagna 2009)

Un film di Juan José Campanella. Con Ricardo Darín, Soledad Villamil, Guillermo Francella, José Luis Gioia, Pablo Rago, Javier Godino, Carla Quevedo.

"Sono venticinque anni che me lo domando.

E adesso voglio capire tutto"

Quando un film colpisce nel segno hai voglia di raccontare a tutti di averlo visto. È il destino delle storie affascinanti quello di essere raccontate ancora, continuando a sopravvive ai propri protagonisti, superando indenni il tempo, e arrichendosi ad ogni passaggio dei vissuti di ciascun nuovo narratore. Ma le storie hanno bisogno di una conclusione, anche precaria, per passare ad altri.

E il protagonista di questo intenso film cerca proprio un finale ad una storia iniziata molti anni prima, e che ancora continua a tormentarlo. “Voglio scrivere la storia di quell’omicidio”: raccontare è alla fine la sola possibilità per dimenticare, per riconciliarci con i fantasmi del passato che non lasciano tregua ai protagonisti di questo toccante e coinvolgente thriller. La memoria è la dimensione in cui si muovono Benjamin Esposito, ex-assistente di un Pubblico Ministero, e Irene, Cancelliere dello stesso Tribunale. Il protagonista, arrivato alla pensione, decide di scrivere un romanzo, lasciando riaffiorare i ricordi del caso Morales, una giovane e bellissima donna stuprata e uccisa in casa da un misterioso assassino. Il suo caso più significativo e complesso della sua carriera, che ha avuto conseguenze determinanti anche sulla sua vita privata e che da allora non smette di riaffiorare. Ma può bastare la memoria a riscattare un’intera esistenza passata a cercare di risolvere misteri e miserie umane? Un’esistenza vuota, rimasta lì ferma, per sempre cristallizzata su un crimine irrisolto, con un assassino rimasto impunito, e una passione che non si è potuto vivere fino in fondo. È troppo tardi ormai per cambiare il finale di questa storia che aspetta, da ben venticinque anni, di essere scritto? È ancora il tempo di desideri? Esposito condivide lo stesso destino del giovane marito della vittima, il cui amore è rimasto cristallizzato in quella che sembrava una mattina come tutte le altre e che invece è diventato il punto di non ritorno ad una normalità desiderabile più di ogni altra cosa. E con lui aspetta giustizia.

Il segreto dei suoi occhi non ha solo una ben congeniata e articolata trama poliziesca, capace di alternare piani drammatici diversi e intrecciare il passato con il presente, né si limita a raccontare di amori che, ciascuno a proprio modo, non è stato possibile vivere in pieno. Tutte le vicende rievocate nel romanzo che Esposito sta scrivendo, hanno su di sé il peso di un’ombra scura, di una tragedia che incombe sull’Argentina della metà degli anni Settanta. Un anno dopo rispetto alle vicende narrate, nel 1976, i militari capeggiati dal Generale Videla, attueranno infatti un sanguinoso golpe, con decine di migliaia di desaparecido, aprendo un vero e proprio abisso di dolore in cui sarà precipitata tutta la società argentina. E questo evento è direttamente collegato all’altro grande tema affrontato da questo intenso film, la giustizia. Quella amministrata per senso di equità, vissuta come occasione per riparare ai torti subiti, ma anche quella che, stravolta profondamente, diventa strumento di potere e sopraffazione. Juan Josè Campanella costruisce un film che è anche un’opera profondamente politica e che ambisce alla denuncia delle storture che rischiano di smantellare un intero sistema, e che non vanno perciò sottovalutate. L’etica, il senso di giustizia, lo stesso ordinamento democratico, che anche il protagonista contribuisce a garantire, stanno per essere spazzati via dalla Nuova Argentina, uno Stato da incubo imposto con la forza delle armi.

giovedì 17 giugno 2010

Sex and the City 2 (USA – 2010)

Un film di Michael Patrick King. Con Sarah Jessica Parker, Kim Cattrall, Kristin Davis, Cynthia Nixon, Chris Noth.  

 
 

“Ho convinto il mio corpo

a credere di essere più giovane” 
 
 

Forse le aspettative, anche questa volta potevano essere alte, soprattutto per chi ha seguito e amato tutte le precedenti stagioni televisive delle quattro ex-ragazze newyorkesi. E tutto sommato, anche considerando il terribile precedente episodio cinematografico, poteva andare molto peggio. Ma certo, dopo due ore e mezzo, è difficilissimo uscire dalla sala senza il rimpianto per i bei tempi in cui Carrie e socie folleggiavano e filosofeggiavano graffianti su glamour e sessualità, in una Manhattan affascinante. Costruendo un vero e proprio fenomeno di costume, con la loro festosa rivendicazione di emancipazione femminile capace di risultare interessante, e soprattutto divertente, anche per gli uomini. Le protagoniste di oggi invece sono diventate grandi, anche se continuano a definirsi “ragazze” (a che età diventeranno donne?), i matrimoni, i figli, la menopausa, l’arredamento hanno preso il posto della moda e del rapporto fra i sessi, il tutto condito da uno stanco e pigro rimpianto del tempo che fu. Ma siamo soprattutto noi spettatori a rimpiangere quello “scintillio” che rendeva interessante, anche per chi non vive a Manhattan, le vicende di Sex and the city. E non si tratta solo del fatto che un telefilm nel passaggio al grande schermo, con comprensibili cambiamento di ritmo e linguaggio, possa perdere di efficacia. In questo film sciatto non c’è traccia di tutti quegli elementi che avevano fatto la fortuna della serie. Una sceneggiatura inesistente, se non ridicola, ha reso le protagoniste così “infighettite” precludendo a chiunque la possibilità di identificarsi con le loro vicende. Di graffiante e caustico, nelle riflessioni di Carrie ormai non è rimasto più nulla, e davvero vederla in crisi profonda, distrutta per aver solo baciato un suo ex, incontrato per caso ad Abu Dhabi, fa sorridere di compatimento, osservando la pessima fine che ha fatto la nostra eroina.

“E quando pensi di aver visto proprio tutto…” arriva la performance di una Liza Minelli che, giunta ormai a quella dolce età in cui si dovrebbe guardare al mondo con occhio benevolo e distaccato, rischia invece una frattura del femore sgambettando sul palcoscenico, in minigonna. Così come, alla fine, non convince per niente il tentativo di dare un senso a questa storia, raccontando la voglia/necessità delle donne di Abu Dhabi di assaporare finalmente quella liberazione dei costumi sessuali che ancora manca. Il tema è troppo complesso, e troppo serio, per essere affrontato da un pessimo film come questo. 

giovedì 3 giugno 2010

Workshop di ripresa del suono


Matera, 7-10 agosto 2010 

Una straordinaria opportunità  per imparare le tecniche di ripresa del suono per il cinema e la televisione! Grazie alla professionalità di Alessio Costantino potrai conoscere tutto il materiale tecnico di ultima generazione e non, tra cui i principali microfoni utlizzati sui set di ripresa, i registratori digitali e i mixer, le loro caratteristiche, il loro costo e le modalità di uso. Dopo questa esperienza formativa sarai in grado di cominciare a proporti per lavorare come fonico documentarista e anche come microfonista o fonico sul set.  

Gli allievi acquisiranno le competenze tecniche di base necessarie alla ripresa del suono in cinema o tv, impareranno a risolvere i principali problemi tecnici che si presentano sul set e saranno stimolati a creare un proprio stile di ripresa del suono. 

Il workshop dedicherà  una particolare attenzione alla ripresa in esterno e per la produzione del documentario.  

Il corso è organizzato dalle associazioni culturali Ethnodoc e Tiaso.

Tutte le informazioni su ethnodoc.org e tiasomatera.com

domenica 25 aprile 2010

L'uomo nell'ombra (The Ghost Writer - USA, Germania, Francia 2010)

Un film di Roman Polanski. Con Ewan McGregor, Pierce Brosnan, Kim Cattrall, Olivia Williams, James Belushi, Timothy Hutton, Eli Wallach, Tom Wilkinson,

  

«Tony Blair? Ho avuto il sospetto che dovessi non dico imitarlo, ma interpretarlo. Ma Roman mi ha subito detto: dimentica Blair, sei Adam Lang. E infatti non cercate l'ex premier inglese nel mio personaggio, questo è piuttosto una visione shakespeariana del potere, drammatica e intricata». (Pierce Brosnan)

 

 

Il protagonista, scrittore capace e ben interpretato da Ewan McGregor, intuisce fin dall’inizio che il lavoro che sta per accettare non sarà un semplice incarico come quelli a cui è abituato. Già esperto ghost writer, forse all’inizio pensa seriamente che per affrontare la biografia dell’ancora potente ex-primo ministro inglese bastasse mettere in prosa le risposte alle sue interviste. Ma c’è un particolare non da poco ad agitare il suo lavoro, il suo predecessore è morto, naturalmente prima di aver completato il libro. “Sapremo mai se si sia trattato veramente di un incidente?” Interrogativo non da poco, soprattutto se il nostro protagonista si ritrova dopo poche ore ad atterrare su un’isola degli Stati Uniti trasformata in un bunker dal suo potente cliente. Adam Lang, perfetta icona del potere di oggi, sempre sorridente davanti alle telecamere, cinico e spietato nelle scelte politiche, ha trasferito sull’isola la sua base operativa, con segretarie, moglie e guardie del corpo, il tutto condito un’insistente pioggia britannica. “Adam Lang fa di nuovo notizia”, suo malgrado, e trascina con sé tutti quelli che lo circondano.

La pioggia e il cielo plumbeo fanno da contraltare alla discesa di uno spaesato McGregor nei meandri del potere, insieme agli altri protagonisti della vicenda che sembrano subire gli effetti nefasti di una pioggia martellante, di un vento insistente che sconvolge non solo le capigliature. Roman Polanski, ancora oggi agli arresti domiciliari in svizzera per le sue note e poco edificanti vicende giudiziale, costruisce un thriller spionistico per certi versi classico nella sua messa in scena, ma al tempo stesso capace di legarsi all’attualità. Un classicismo che si riflette innanzitutto in una trama che, piuttosto che puntare su un intreccio inutilmente ingarbugliato (diciamo pure che molto presto si intuisce quasi tutto, anche se le informazioni vengono sapientemente dosate, si affida alla capacità delle immagini di Polansky di creare un’atmosfera carica di pathos. Stesso discorso per l’interpretazione degli attori improntata all’essenzialità e all’inquietudine. In particolare Ewan McGregor riesce a restituire in pieno il ritratto di una persona qualunque finita quasi per caso in un ingranaggio più grande e più forte che finirà per travolgerlo.

 

sabato 10 aprile 2010

Il Profeta (Francia, Italia 2009)

Un film di Jacques Audiard. Con Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb, Hichem Yacoubi. Jean-Philippe Ricci. 


«In questo film la prigione è una metafora della Francia. Con questo non voglio dire che essere liberi o carcerati è la stessa cosa. Voglio dire che in prigione si ricreano, esasperati, i meccanismi sociali, psicologici, etnici, religiosi, di classe che condizionano la nostra vita sociale»

Jacques Audiard 
 

Se dovessimo misurare la civiltà di un paese, in questo caso si tratta della Francia, dalla condizione dei detenuti, allora questo film ci mostra un paese messo decisamente male. Jacques Audiard costruisce, senza retorica e falsi moralismi, una critica aspra ad un sistema carcerario corrotto, dal quale nessuno esce migliore, e restituendo così un ritratto della Francia di oggi. Il carcere in cui il detenuto Malik è condannato a scontare sei anni per aver aggredito un poliziotto, è infatti un  vero e proprio microcosmo, in cui i detenuti e le guardie riflettono come in uno specchio la società che li ha, in un certo senso, prodotti in un continuo rimando fra esterno e interno, fra chi sta dentro e chi è fuori. Audiard esplora questo mondo con lo sguardo di Malik. Il ragazzo ha imparato, fin dal suo ingresso in carcere, che gli occhi conviene tenerli bassi, pensando a difendersi. Tutto inutile però. Malik capisce in fretta quali sono i meccanismi che regolano una vera e propria società parallela, e soprattutto impara a disprezzare gli altri uomini, glielo insegna il boss Luciani che decide in un certo senso di “adottarlo”, commissionandogli l’omicidio di  un detenuto che non deve testimoniare. Per Malik si tratta di una vero e proprio rito di iniziazione alla vita da criminale. Da quel momento in poi Malik smette in fretta di guardare il pavimento ed accettare solo ordini. 

E’ intelligente, osserva, impara le regole non scritte che convivono insieme a quelle ufficiali, impara a difendersi. E così il ragazzo entrato in carcere a 19 anni, spaventato, miserabile e pezzente, esce dopo sei anni rivestito a nuovo, mentre ad aspettarlo c’è la banda di criminali che ha costruito durante le uscite in libertà condizionata. Adesso Malik ha l’espressione fiera di chi, assaporato il gusto dolce del comando, ormai non si accontenta più. Il suo primo omicidio gli ha insegna a non avere più paura, a considerare la sua permanenza in carcere un vero e proprio apprendistato. Ma lo sguardo è anche quello visionario di un ragazzo cresciuto in fretta, capace di dare forma ai suoi incubi, fino quasi a prevedere il futuro. Brillano di intelligenza gli occhi del giovane Malik, nei primi piani di Audiard, e hanno la determinazione di chi è pronto a compiere il suo tragico destino. La sua missione.

È un film potente Il profeta, nel quale si viene letteralmente sorpresi dalla quantità di temi e situazioni che vengono esplorati a volte con rabbiosa fretta, altre con la calma di chi ripensa ad occhi chiusi, nella cella di isolamento, alla vita. Il tutto scandito da una regia che sa essere nervosa, movimentata, da una macchina da presa costantemente addosso ai protagonisti, ad indagarne con meticolosità gesti, corpi, ferite, sguardi. Il ritmo non cede mai, Audiard tiene costantemente alta la tensione, attraversando attraverso l’azione e la violenza, oltrepassando i labilissimi confini tra chi sta in cella e chi sconta la sua pena per la strada. Malik attraversa, con la disinvoltura di un capo, i delicati confini etnici che regolano il mondo criminale, imparando la lingua dei mafiosi corsi,  trattando con gli arabi, affrontando i marsigliesi e i mafiosi italiani. Una vera società multiculturale. Un film capace di emozionare profondamente gli spettatori, gettandoli in un mondo in cui c’è poco posto per l’umanità dei suoi abitanti. 

martedì 6 aprile 2010

Invictus - L'Invincibile (USA 2009)

Un film di Clint Eastwood. Con Morgan Freeman, Matt Damon, Tony Kgoroge, Patrick Mofokeng, Matt Stern. 


Ragazzi I tempi stanno cambiando. E dobbiamo cambiare anche noi.

 
 

Cosa può servire al cambiamento di un’intera nazione? Se lo chiede Nelson Mandela, dal primo giorno in cui, dopo 27 anni di galera, finalmente riassapora il gusto della libertà. Il cambiamento è nell’aria, il Sudafrica sembra pronto a quella che tutti definiscono un’occasione storica. Ma come dare impulso a questo processo, facendolo condividere a milioni di cittadini e soprattutto conciliando i timori dei bianchi e il desiderio di rivalsa dei neri? Il campionato del mondo di rugby può diventare quell’occCorsivoasione. Anche perché c’è la squadra nazionale, gli Sprinboks, che fino a quel momento è considerata il simbolo stesso dell’apartheid. 

Ma il “perdono libera l’anima e cancella la paura” e Mandela scommette anche parte del suo prestigio politico sul fatto che, più di trattati economici e nomine di ministri, ad aiutare il Sudafrica a trovare una nuova forma di convivenza possa proprio essere il rugby e lo sport. Rischia in prima persona, come ha imparato a fare in carcere, per portare avanti il suo progetto politico di creazione di una Nazione capace di accogliere tutti i suoi cittadini. E questo sarà un aspetto determinante nel coinvolgere chi gli sta intorno in una nuova sfida. Eastwood esplora, attraverso la ricostruzione di questo avvenimento storico, la possibilità di coesistenza di opposti desideri, diverse aspirazioni, in un lavoro che sia veramente di squadra. A volte però, nonostante Invictus riveli la grandissima capacità visionaria di Clint Eastwood, il film sembra scontare alcune semplificazioni di troppo, quasi che il suo autore tema di mancare il lieto fine, specie nella seconda parte in cui la narrazione si dirige docile verso quello che poi è accaduto veramente. Ma gli ingredienti per emozionare gli spettatori ci sono tutti. Se avete pianto guardando in televisione le olimpiadi, questo film non vi lascerà indifferenti. 

Gli Springboks, inseguendo e vincendo contro tutte le previsioni il titolo di campioni del mondo, diventano sul campo il simbolo del nuovo Sudafrica. Lo fanno con il sudore, con il sacrificio, ma soprattutto ci riescono perché sono davvero una squadra, percorsa dal brivido della sfida e dall’energia. Quella stessa ispirazione che Mandela cerca di portare nel suo paese. Invictus riesce a restituire perciò tutta la portata storica della sfida che lo stesso Mandela lanciò al suo paese, in un momento in cui il cambiamento non poteva essere più rimandato.  

domenica 28 febbraio 2010

Soul Kitchen (Germania 2009)

Un film di Fatih Akin. Con Adam Bousdoukos, Moritz Bleibtreu, Birol Ünel, Anna Bederke, Pheline Roggan.

 

- Cibo per l’anima, Soul Kitchen.

- Mi piace!

 

 

Il tentativo è ambizioso, condire la commedia con il fascino della cucina e il ritmo intrigante della musica soul. Zinos è un giovane immigrato greco dalla vita sentimentale e lavorativa decisamente incasinata, ma capace di lasciarsi trascinare dalla vita e dalle molteplici possibilità che offre. Ogni giorno. Arrivato ad Amburgo ha investito tutti i suoi soldi nell’acquisto di un vecchio capannone industriale, installando un ristorante di poche pretese, la cui unica mission è sfamare una clientela di operai della zona, altrettanto di poche pretese in termini di qualità e varietà delle pietanze. A dare la svolta al suo locale, regno di alimenti surgelati e fritti, e di conseguenza alla sua vita, arriva Shayn, cuoco eclettico e intransigente in termini di creatività e rispetto gastronomico. Come in ogni buona trama che si rispetti a quel punto si intrecciano varie elementi: un fratello scapestrato, un vecchio amico delinquente, giovani punk, agenti del fisco e infine un nuovo amore, il tutto a condire una sapiente sceneggiatura e una stile registico essenziale, al servizio della storia. Insomma, tutti gli ingredienti che fanno di Soul Kitchen una commedia sentimentale, dalle trovate intelligenti e dal ritmo sostenuto, come i brani della bella colonna sonora. Ottima l’interpretazione di Adam Bousdoukos, vero greco di Amburgo, che dà sostanza ad una vicenda che riesce ad affrontare anche temi più impegnativi come l’integrazione e il senso di appartenenza. E già, perché inseguire i propri sogni è più difficile se si è immigrati, lontani da casa. Soul Kitchen diventa perciò un luogo speciale, crocevia di razze e tipi umani dei più disparati. Questa atmosfera e la capacità di condivisione saranno determinanti, innanzitutto per Zinos, per superare incertezze e guai, fino ad una degna conclusione. Zinos e i suoi amici ci dimostrano che l’insicurezza del vivere moderno, la fragilità e  l’individualismo possono essere affrontati insieme, con un sorriso divertito e lo sguardo innamorato. Come nelle ricette di Shayn, quindi anche questo film riesce nell’impresa, non del tutto scontata, di ricombinare fra loro elementi semplici per trasformarli in un piatto appetitoso e dalla forma molto invitante. Evitando quello che spesso succede nei ristoranti più raffinati, dove al godimento dell’assaggio di bellissimi piatti non segue quasi mai la sensazione piacevole di aver mangiato a sazietà e magari ci si rifugia, per un più sostanzioso dopo-pasto, in una bettola un po’ malmessa ma di sicuro più sincera. E’ proprio questa è l’atmosfera che si respira a Soul Kitchen e di cui Zinos è, giustamente, orgoglioso.

lunedì 15 febbraio 2010

questa settimana, la recensione di un libro...


LA CURA - Vie di fuga possibili per sfuggire ad un disastro certo.


"C'è una specifica ragione se la politica preferisce i co.co.co., i contratti a termine.

Perché così può scegliere i fedeli, stabilizzandoli se dimostrano obbedienza,

e nel frattempo tenendoli per anni sotto schiaffo."


Scorre veloce la lettura di questo brillante e documentato saggio di Michele Ainis, edito da ChiareLettere, che traccia un lucido ritratto dei mali che affliggono oggi il nostro Paese. Il ritmo della scrittura, e la ricchezza dei dati a sostegno delle tesi dell’autore, contribuiscono in un certo senso ad allontanare il rischio di frustrazione del lettore posto di fronte ai consolidati vizi della società italiana. Una diagnosi così allarmata e allarmante potrebbe spingere i più pigri a trovare quasi una giustificazione per l’atteggiamento di rassegnazione e di sconfitta di qualsiasi possibilità concreta di cambiamento. Ainis allontana questa possibilità costruendo un’analisi lucida su aspetti molto concreti del vivere quotidiano, proponendo una ricetta piuttosto semplice, la cui applicazione presuppone la volontà di affrontare sul serio i problemi. Come ogni terapia occorre infatti che si rispettino alcune regole, in fondo poi, sempre quelle: costanza nel seguire le indicazioni, attenzione agli effetti collaterali, determinazione a superare le prime difficoltà e al tempo stesso a non cedere ai facili entusiasmi determinati dai primi risultati ma continuare fino in fondo, fino a guarigione avvenuta. Ainis propone con piglio polemico e ricchezza di dati, una ricetta completa, fatta di dieci interventi che a suo dire possono sconfiggere quei grumi di potere e clientele consolidate, responsabili del mancato sviluppo dell’Italia. Gli esempi non mancano nella cronaca quotidiana. E così, mentre si sbandiera la volontà di premiare il “merito”, certi schieramenti politici ricandidano le veline e soubrette escluse dalle liste delle scorse europee a quelle delle regionali, forse convinti che questa volta ci sarà meno clamore. Ma tanto si sa, lo dicono i sondaggi, in Italia, quello che non può la famiglia, riesce al partito, e un posto al sole non lo si nega quasi a nessuno. Purchè si dimostri docile e mansueto, non troppo intraprendente. E se la classe politica è lo specchio del paese, vuol dire che non dovremmo sorprenderci per la candidatura in Lombardia di un ragazzo bocciato quattro volte alla maturità, ma illustre figlio di tanto padre. Ma l’oligarchia delle classi politiche è solo uno dei sintomi di un malessere generale, diffuso come un cancro in tutti i settori della società. Ainis denuncia la poca trasparenza dei concorsi pubblici, i meccanismi di autodifesa dei vari ordini professionali, l’età media altissima delle persone collocate nei posti chiave non solo della politica ma anche dell’economia. Una vera e propria gerontocrazia che opprime e inibisce l’accesso delle nuove generazioni, portatrici di energie e idee nuove, nella società. “La scarsa volontà di riconoscere i talenti, di stimolarli, di compensarne adeguatamente l’operato è la palla al piede della nostra società” Quando si criticano tanto i “bamboccioni” che non abbandonano il nido familiare, si dimentica quanto frustrante sia per la maggioranza il percorso che porta all’accesso al mondo del lavoro. Ainis ha il merito, dobbiamo riconoscerlo, non solo di denunciare il male, scrivendo quello che potrebbe essere il “libro contabile d’una società fallita”, ma anche di proporre alcune possibili soluzioni, individuando nella Carta Costituzionale i principi disattesi e le regole possibili, tanto semplici a volte da sembrare quasi irrealizzabili, per un paese che appare rassegnato al proprio destino. E lo fa invocando una rinnovata trasparenza nella gestione della cosa pubblica, una vigorosa presa di coscienza e soprattutto un impegno in prima persona di ciascuno. Finito il tempo della delega, che per troppo tempo ha consentito alle varie caste di costruire i fortini del proprio autorefenziale potere, è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Anche se a volte ci sembra il contrario, il nostro futuro è ancora tutto da scrivere, aggiungendo a questo decalogo la nostra personale cura.


La Cura. Contro il potere degli inetti per una repubblica degli eguali

Chiarelettere, 2009, €14,00

lunedì 1 febbraio 2010

AVATAR

Un film di James Cameron. Con Sam Worthington, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Stephen Lang, Michelle Rodriguez, Giovanni Ribisi, Joel Moore.

Manderanno un messaggio per dirci che

possono prendersi tutto quello che vogliono,

ma noi manderemo il nostro messaggio...

Questa è la nostra terra!

Nel giudicare film come questi, annunciati da un incredibile battage pubblicitario e da roboanti dichiarazioni sul fatto che il cinema non sarà più lo stesso dopo l’uscita nella sale di tale capolavoro, è molto facile che si creino due schieramenti, opposti nel giudicare l’opera, pronti a dissentire anche ferocemente fra loro. Capita allora che, quasi per una sorta di spontaneo scetticismo e prevenzione nei confronti degli annunci e della pubblicità, una parte del pubblico pur non potendo mancare un appuntamento con la Storia del Cinema, vada in sala pronto a sentenziare la mediocrità e l’inganno di quella che si configura come una megalomane operazione tecnologico-pubblicitaria, fatta apposta per turlupinare le masse di spettatori che al cinema ci vanno solo due/tre volte l’anno (di cui almeno una dedicata ai famigerati cinepanettoni). Pur vicino sentimentalmente alla fazione dei contestatori, lo ammetto, nello scontro di opinioni e nel fiume di parole generato dal film di James Cameron, sono andato al cinema con lo spirito ecumenico di una terza via, cercando di lasciarmi sorprendere da un nuovo “giocattolo” cinematografico, più grande e colorato di quelli che fin’ora ho visto. La prima impressione, già allo scorrere dei chilometrici titoli di coda, è quella di aver assistito a qualcosa che da un punto di vista spettacolare è davvero sorprendente. Il 3D crea un mondo avvolgente e Pandora, dove è ambientata la vicenda, acquista una concretezza visionaria che non ha eguali. Il pianeta viene reinventato, e qui bisogna riconoscere la capacità visionaria di Cameron, con una ricchezza di paesaggi e creature viventi, che danno nuovo splendore alla tradizione iconografica della fantascienza.

Tutto questo sfavillante esibizione tecnologica è purtroppo al servizio di una storia già sentita, anche se “mai vista così”. Le citazioni potrebbero essere numerose, e comprendono in ordine sparso, film che ripensano il genere western, tipo Un uomo chiamato cavallo o Balla coi lupi, capolavori come Apocalypse Now con annesso attacco di elicotteri, (quello più grande, guarda un po’, si chiama pure Valkyrie), passando per cartoni animati più o meno recenti come Spirit o Pocahontas e così via, fino all’autocitazione di Alien e Terminator. E così, anche in questo senso, ci si divide fra chi denuncia lo scopiazzamento a piene mani e chi invece esalta la capacità di citare la storia del cinema, pescando con maestria fra i vari generi. La narrazione non riesce però a decollare davvero, non tanto per la forza di gravità che su Pandora non è un problema, quanto piuttosto per l’abbondanza di stereotipi e banali contrasti fra una visione animistica del mondo degli alieni e l’invadenza militaresca degli umani. Fatte le dovute eccezioni, questi infatti appaiono ottusamente incapaci di relazionarsi con gli abitanti di un pianeta ricco di spiritualità, e non solo i materie prime, ma soprattutto incapaci di comprendere che tutto il pianeta appare percorso da connessioni vitali che legano coloro che lo abitano, rendendoli parte di un unico insieme. Forse per noi occidentali, da secoli abituati a prendere quello che ci serve in giro per il nostro di pianeta, e senza tanti scrupoli, potrebbe essere l’occasione di un ripensamento della nostra storia, ma il messaggio appare molto annacquato, così come la rivendicazione dei propri diritti lanciato dagli abitanti di Pandora inciampa in più punti. Non ci si sorprende mai a seguire le avventure di personaggi che, nonostante volteggi e paesaggi mozzafiato, appaiono appesantiti dagli stereotipi del proprio ruolo, dalla ovvietà dei conflitti e dalla semplificazione eccessiva di caratteri ed emozioni. Davvero da dimenticare poi alcune sequenze che finiscono nel ridicolo, come per esempio nella danza new-age messa in piedi per cercare di salvare la combattiva scienziata amica degli indigeni. L’unico momento forse in cui ci si emoziona rimane alla fine uno di quelli più semplici, e cioè quando Jake Sully, durante il primo “viaggio” nel suo doppio, l’Avatar, ritrova le gambe e l’incontenibile emozione di poter di nuovo correre. Leggero, in un corpo e in un mondo nuovo, sperimenta il potere della mente. Sarà questa l’immagine del futuro che ci aspetta?

mercoledì 27 gennaio 2010

Sherlock Holmes

Un film di Guy Ritchie. Con Robert Downey Jr., Jude Law, Rachel McAdams, Mark Strong, Kelly Reilly, Hans Matheson, Eddie Marsan, James Fox.

“Non sono ubriaco,

sono solo diversamente sobrio”

(Sherlock Holmes)

Terminata la proiezione, uscendo dalla sala, non preoccupatevi se avvertirete una leggera, ma insistente, sensazione di stordimento. Sarà il probabile effetto collaterale di quasi due ore di mirabolanti avventure e azioni frenetiche del detective più celebre. L’indomabile Sherlock Holmes, torna al cinema, impegnato a combattere le forze dell’occulto in una tetra Londra di fine Ottocento avvolta dal grigiore e dal mistero (un’immagine stereotipata della capitale inglese ormai ben lontana da quella odierna, ma che ben si adatta al clima delle indagini di Sherlock Holmes).

Guy Ritchie, conosciuto dai più mondani come ex marito di Madonna, ha il merito di confezionare un film dal forte impatto visivo e di assoluta spettacolarità, bisogna riconoscerlo, ma soprattutto quello di riuscire a tenere costantemente in piedi il ritmo della narrazione, nonostante una sceneggiatura decisamente non all’altezza delle sue capacità registiche e di quelle del personaggio principale. Tanto che nel giro dei primi minuti la trama, di fatto, ha già esaurito qualsiasi possibilità di sorprenderci e, caratteristica principale di ogni capolavoro, la capacità di inquietare e far emergere dubbi nello spettatore. Archiviata, quindi fin dall’inizio, una risposta affermativa alla classica domanda: «riusciranno i nostri eroi a sconfiggere le forze del Male che minacciano il glorioso Impero Britannico?», possiamo senz’altro lasciarci andare all’immediatezza delle azioni e alla godibilità della comicità di cui sono capaci i personaggi. Primo fra tutti lo stesso Holmes, personaggio eccentrico, costantemente sopra le righe e quasi incapace di controllare le sue eccezionali capacità. Vita da bohemien, disordinato, capriccioso e ostinato, Holmes sa completare la sue capacità intellettive con l’abilità nel menare le mani. A fargli da spalla un Watson affascinante (io l’avevo sempre immaginato come un signore distinto, ma di mezz’età, con pancetta e orologio nel taschino del gilet), misurato ma capace di imprevedibili guizzi di intuzione e azione, vittima-complice del fraterno compagno d’avventure. A completare il quadro, la bella di turno, Irene Adler, diabolica e appassionata, l’unica capace di sedurre Holmes fino a renderlo inoffensivo,. Il film di Guy Ritchie, grazie anche alle capacità interpretative di Robert Downey Jr., Jude Law, e Rachel McAdams, ci offre quindi una rilettura e soprattutto una non facile ri-attualizzazione del personaggio creato da Herzog, confezionando due ore di intrattenimento puro, con trovate azzeccate e dal ritmo frenetico, che forse hanno l’unico difetto di durare quanto il flash accecante di un vecchio fotografo ambulante.

Piccola nota a margine. La lotta di Sherlock Holmes mi ha ricordato un interessante film, purtroppo passato in un silenzio assoluto nelle sale italiane un paio di anni fa: Invincibile di Werner Herzog, ambientato a Berlino negli anni dell’ascesa al potere del Nazismo. Anche in questo caso sullo schermo si svolge una lotta con i poteri dell’occulto e della magia, ma con ben altri effetti speciali e ben altro ritmo. E soprattutto con esiti poco rassicuranti per noi, visto che a trionfare in questo caso non è il Bene, ma la banalità del Male. Se il tema vi appassiona quindi vi consiglio vivamente, dopo aver fatto il pieno di azione con Holmes, di recuperare un po’ di riflessione con il film di Herzog.

mercoledì 20 gennaio 2010

La bocca del lupo (Italia – 2009)

Un documentario di Pietro Marcello con Vincenzo Motta e Mary Monaco

Bisognava dunque aspettare la ventisettesima edizione perché un film italiano vincesse l’ambito premio come miglior film nel concorso del Torino Film Festival. Se poi a vincerlo è un documentario, la soddisfazione di chi scrive aumenta. La definizione di documentario, per la verità, sta un po’ stretta ad un film come La bocca del lupo, opera che non si fa ingabbiare negli stereotipi del genere e capace di innovare le forme del linguaggio cinematografico. Pietro Marcello, che avevamo apprezzato come regista dell'intenso "Il passaggio della linea", mette infatti il suo sguardo di autore, al servizio del racconto per inquadrature, fino ad uscire dai confini stretti della documentazione della realtà e dando al suo film il respiro più ampio e la forza del cinema. Marcello si muove così a cavallo fra il melodramma, il reportage, l’inchiesta sociale, riuscendo a meravigliarci con lo spettacolo della vita e l’intensità delle emozioni.

Nei vicoli della città vecchia di Genova, quelli così cari a Fabrizio De Andrè, capita a volte che certi incontri siano speciali. Lo è senz’altro quello del regista con Enzo, ex carcerato di lungo corso, Mary, transessuale, e con la loro storia d’amore. Mary ha atteso vent’anni che Enzo, conosciuto in carcere, scontasse la pena e tornasse a casa per costruire il sogno di una vita tranquilla e felice, insieme. Lo raccontano le loro voci impresse negli anni sui nastri di cassette che i due si inviavano, e che fanno da contrappunto alle loro immagini di oggi. Lo testimoniano i loro volti che, in una sequenza davvero toccante, rivolgono il loro racconto direttamente alla macchina da presa.

Pietro Marcello racconta la storia di personaggi vinti, marginali, travolti dalla vita, che non hanno saputo o voluto opporre nessuna resistenza agli avvenimenti, nell'illusione di poterli controllare e dominare, sempre. La bocca del lupo è un film sui ricordi e la nostalgia, sul passato di una città e sul futuro delle relazioni, su come la Storia, quella con la S maiuscola, spesso è solo lo sfondo di una miriade di storie minori, dense e commuoventi. E se oggi Enzo appare in un certo senso vittima di uno spaesato, incapace, per certi versi, di “esser normale”, almeno i sogni, quello di una casa con un po' di terra per farci un orto e con la vista sul mare, resistono ancora al passare inesorabile degli anni. Così come rimane intatta la loro capacità di esser teneri, innamorati, poetici e vivi. Ma come loro, anche Genova guarda l'orizzonte ampio del mare dai vicoli stretti e sporchi. E mentre il passato rivive (e ri-crolla) nelle immagini di archivio, ancora un'umanità brulicante, povera ma vitale, affolla i suoi caruggi dove il sole non arriva mai.