mercoledì 3 giugno 2009

Tutta colpa di Giuda - Una commedia con musica

Un film di Davide Ferrario. Con Kasia Smutniak, Fabio Troiano, Gianluca Gobbi, Cristiano Godano, Luciana Littizzetto.


- Cosa c’è di più triste di un carcere vuoto?
- Un carcere pieno?


L’ultimo film di Davide Ferrario è un interessante esperimento per il panorama cinematografico italiano, e anche se i risultati non sempre risultano all’altezza dei buoni propositi, finisce per farsi notare soprattutto per le sue modalità di realizzazione.
In Tutta colpa di Giuda, girato nel carcere delle Vallette di Torino, si racconta dell’esperienza di un gruppo di detenuti con il teatro e la danza. La regista teatrale Irene, interpretata da Kasia Smutniak, viene infatti invitata a condurre un laboratorio sperimentale, alla fine del quale mettere in scena la Passione di Cristo. Irene dovrà naturalmente affrontare le iniziali resistenze dei detenuti, resistenze molto blande per la verità, e soprattutto le resistenze di chi in carcere ci lavora. Questi ultimi soprattutto temono che l’irrompere del teatro, della danza e della vitalità che ne consegue, possa incrinare quell’equilibrio che faticosamente tutti ricercano e che permette di sopravvivere in un luogo del genere. Per il cappellano del carcere, inizialmente grande sostenitore dell’iniziativa, la messinscena della Passione e della morte di Cristo, sarà anche l’occasione per un acceso confronto sul senso profondo della religione e della propria vocazione. Più in generale, questa esperienza comporterà dunque per tutti i personaggi l’avvio, e per alcuni sarà la prima volta, di una riflessione sulla propria condizione esistenziale e sul proprio futuro.

Girato a metà strada fra la finzione e il documentario, e come lo stesso regista ama ripetere, Tutta colpa di Giuda è un film nel carcere e non un film sul carcere, che gioca con i toni leggeri della commedia musicale.
E’ però un film riuscito a metà, debole soprattutto nella parte di finzione, quella immaginata nella sceneggiatura per intenderci, che a volte propone situazioni che da un punto di vista narrativa mostrano una certa fatica e un’inevitabile caduta di intensità. Il film mostra le difficoltà maggiori proprio nelle parti in cui a recitare sono degli attori professionisti, a partire da Fabio Troiano, attore di buon livello quando non recita in un napoletano da avanspettacolo come in questo caso. Più in generale, alcuni appaiono non molto credibili nel ruolo che interpretano, la stessa protagonista ad esempio, finendo però per far risaltare proprio i non professionisti della scena, i detenuti, capaci di mettere in scena la loro quotidianità in cella con estrema efficacia. Molto interessante per esempio la sequenza iniziale in cui Irene intervista i detenuti che diventeranno poi i suoi attori, raccogliendo pensieri profondi, ma sempre conditi di una disarmante semplicità.
Al di là di queste suggestioni e dei risultati, la realizzazione di questo film deve essere stata un’esperienza che ha coinvolto non solo chi ha recitato davanti alla macchina da presa, creando l’occasione di un incontro reale fra persone altrimenti distanti. E questo elemento emerge costantemente durante tutta la visione, fino al suggestivo il finale in cui, a seguito dello svelamento della finzione cinematografica, Ferrario riesce a restituire con intensità la fine di una parentesi gioiosa rappresentata dalla realizzazione del film, e il ritorno alla vita “dietro le sbarre”.

La vita vera non è il cinema, purtroppo.

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