venerdì 26 giugno 2009

L’occhio tagliato del cinema.

In un cofanetto della Raro Video, l’esordio di Luis Buñuel al cinema.



Non so se il risultato sarà un’opera d’arte, ma sarà sicuramente cinema.
Cinema, nel senso che nessuna arte, nessuna scienza può farne le veci (Jean Vigo)



“Dopo la proiezione di un Chien Andalou, una cinquantina di persone si presentarono al commissariato di polizia per sporgere denuncia, affermando: «Bisogna proibire quel film osceno e crudele». Era l’inizio di una lunga serie di insulti e minacce, che mi ha perseguitato fino alla vecchiaia”. Oggi non c’è più censura di polizia ma è il mercato, dopato da cine-cocomeri e banalità varie, a tagliare fuori lo sguardo disturbante di un certo cinema, capace di mettere in crisi le solide convinzioni di chi siede in sala (o, nella versione contemporanea dello spettatore, davanti al lettore dvd). Nessun film sarà lo stesso, se vi concederete la visione degli esordi al cinema del grandissimo Luis Buñuel, e per quelli fra voi più disponibili, si attuerà una vera e propria rivoluzione dello sguardo. Un chien Andalou, L’Age d’or e Las Hurdes, tre capolavori del cosiddetto cinema surrealista, sono disponibili in un cofanetto Raro Video (www.rarovideo.com), a cura di Enrico Ghezzi e Donatello Fumarola. Un cofanetto davvero ben fatto, che contiene anche alcuni extra e un libretto con note critiche e testi, tra gli altri, di Aldo Nove, Jean Vigo e André Breton.
Tre film che, dopo ottant’anni dalle loro prime tormentate proiezioni, riescono a creare scompiglio nello sguardo di ogni spettatore, contribuendo ad una rivoluzione nell’idea stessa di cinema e di visione, che conserva ancora la sua forza. Un’esperienza che ritorna a portata di occhio, dunque.

Il primo film, Un chien andalou, è del 1928, scritto insieme a Salvator Dalì, secondo un metodo che Buñuel definiva paranoico-critico: le immagini e i sogni venivano annotati senza alcun filtro, così come emergevano nelle discussioni fra i due autori, senza un collegamento o una logica predefinita, ma privilegiando esclusivamente il loro impatto emotivo. Il risultato è molto simile alle nostre esperienza oniriche, le situazioni si succedono con lo stesso ritmo delle nostre visioni notturne, senza una spiegazione razionale. Il film inizia con una celebre sequenza in cui un uomo armato di rasoio taglia un occhio: un prologo che difficilmente lascia indifferenti, un vero e proprio shock, in cui si esalta il potere della macchina da presa, liberata dalla necessità di essere specchio fedele della realtà, capace finalmente di stravolgere il logico susseguirsi della visione. Accolto da un vasto interesse e da reazioni molto diverse fra loro, con questo film Luis Buñuel guadagnava l’ingresso nel gruppo dei surrealisti, composto in quegli anni da André Breton, Argon, Max Ernst, Man Ray, Picasso, intellettuali che avevano scelto di mettere a nudo le ingiustizie della società attraverso lo scandalo e la provocazione.

Anche il successivo film, L’Age d’Or (1930), continua ad alimentarsi di questo desiderio di dissacrare, di esplorare i limiti della rappresentazione, di turbare benpensanti e perbenisti. Anche in questo caso, il film fu accolto da violente proteste e assalti da parte di estremisti di destra alla sala in cui si proiettava, tanto da far scattare il divieto di proiezione pubblica per il film (divieto rimasto in vigore per vari decenni fino al 1980). L’Age d’or è un film sull’amore folle di un uomo e di una donna, sull’erotismo e sulle sue estreme conseguenze. Senza l’utilizzo di una struttura narrativa classica, ma attraverso il susseguirsi di visioni e situazioni esasperate come in Un chien andalou, anche in questo film Bunuel attacca da buon surrealista i pilastri della società borghese, la Chiesa, l’esercito e il patriottismo.

Las Hurdes – Tierra sin pan (1932) è il racconto della miseria e della crudeltà di una regione della Spagna, l’Estremadura, che già nel nome contiene la chiave di lettura della vita dei propri abitanti, uomini e animali, accomunati da una quotidianità misera e tragica. Girato in stile documentario, Las Hurdes è però capace di trascendere il puro racconto della realtà, diventando lo specchio dell’esistenza umana. Buñuel stesso scrive che “quelle montagne mi hanno conquistato subito. La miseria degli abitanti mi affascinava, come pure la loro intelligenza e l’attaccamento al loro paese perduto, alla loro terra senza pane. In almeno venti villaggi il pane fresco di giornata era un oggetto misterioso. Ogni tanto qualcuno portava dall’Andalusia una pagnotta di pane raffermo che veniva usata come moneta di scambio”.

Quello che accomuna questi film è la semplicità dello stile di Buñuel , come scrive Fumarola nel libretto che accompagna i dvd, l’eccentricità è tutta dentro le cose che vengono messe in scena. Buñuel non cerca la bellezza dell’immagine, non adotta uno stile sofisticato e autoreferenziale, difetto che spesso accomuna le avanguardie, ma privilegia un’essenzialità dello sguardo, che tale rimane sia quando è rivolto alla realtà sia quando, con gli occhi chiusi, si sofferma sul mondo dei sogni. La possibile chiave di lettura rimane perciò quella della seduzione: non resta che lasciarsi affascinare da uno sguardo capace di restituire l’essenza della vita, lasciarsi andare ad un’esperienza visiva che scompone, sovrappone, confonde le cose e conquista. Senza resistenze.

mercoledì 3 giugno 2009

Tutta colpa di Giuda - Una commedia con musica

Un film di Davide Ferrario. Con Kasia Smutniak, Fabio Troiano, Gianluca Gobbi, Cristiano Godano, Luciana Littizzetto.


- Cosa c’è di più triste di un carcere vuoto?
- Un carcere pieno?


L’ultimo film di Davide Ferrario è un interessante esperimento per il panorama cinematografico italiano, e anche se i risultati non sempre risultano all’altezza dei buoni propositi, finisce per farsi notare soprattutto per le sue modalità di realizzazione.
In Tutta colpa di Giuda, girato nel carcere delle Vallette di Torino, si racconta dell’esperienza di un gruppo di detenuti con il teatro e la danza. La regista teatrale Irene, interpretata da Kasia Smutniak, viene infatti invitata a condurre un laboratorio sperimentale, alla fine del quale mettere in scena la Passione di Cristo. Irene dovrà naturalmente affrontare le iniziali resistenze dei detenuti, resistenze molto blande per la verità, e soprattutto le resistenze di chi in carcere ci lavora. Questi ultimi soprattutto temono che l’irrompere del teatro, della danza e della vitalità che ne consegue, possa incrinare quell’equilibrio che faticosamente tutti ricercano e che permette di sopravvivere in un luogo del genere. Per il cappellano del carcere, inizialmente grande sostenitore dell’iniziativa, la messinscena della Passione e della morte di Cristo, sarà anche l’occasione per un acceso confronto sul senso profondo della religione e della propria vocazione. Più in generale, questa esperienza comporterà dunque per tutti i personaggi l’avvio, e per alcuni sarà la prima volta, di una riflessione sulla propria condizione esistenziale e sul proprio futuro.

Girato a metà strada fra la finzione e il documentario, e come lo stesso regista ama ripetere, Tutta colpa di Giuda è un film nel carcere e non un film sul carcere, che gioca con i toni leggeri della commedia musicale.
E’ però un film riuscito a metà, debole soprattutto nella parte di finzione, quella immaginata nella sceneggiatura per intenderci, che a volte propone situazioni che da un punto di vista narrativa mostrano una certa fatica e un’inevitabile caduta di intensità. Il film mostra le difficoltà maggiori proprio nelle parti in cui a recitare sono degli attori professionisti, a partire da Fabio Troiano, attore di buon livello quando non recita in un napoletano da avanspettacolo come in questo caso. Più in generale, alcuni appaiono non molto credibili nel ruolo che interpretano, la stessa protagonista ad esempio, finendo però per far risaltare proprio i non professionisti della scena, i detenuti, capaci di mettere in scena la loro quotidianità in cella con estrema efficacia. Molto interessante per esempio la sequenza iniziale in cui Irene intervista i detenuti che diventeranno poi i suoi attori, raccogliendo pensieri profondi, ma sempre conditi di una disarmante semplicità.
Al di là di queste suggestioni e dei risultati, la realizzazione di questo film deve essere stata un’esperienza che ha coinvolto non solo chi ha recitato davanti alla macchina da presa, creando l’occasione di un incontro reale fra persone altrimenti distanti. E questo elemento emerge costantemente durante tutta la visione, fino al suggestivo il finale in cui, a seguito dello svelamento della finzione cinematografica, Ferrario riesce a restituire con intensità la fine di una parentesi gioiosa rappresentata dalla realizzazione del film, e il ritorno alla vita “dietro le sbarre”.

La vita vera non è il cinema, purtroppo.