sabato 10 aprile 2010

Il Profeta (Francia, Italia 2009)

Un film di Jacques Audiard. Con Tahar Rahim, Niels Arestrup, Adel Bencherif, Reda Kateb, Hichem Yacoubi. Jean-Philippe Ricci. 


«In questo film la prigione è una metafora della Francia. Con questo non voglio dire che essere liberi o carcerati è la stessa cosa. Voglio dire che in prigione si ricreano, esasperati, i meccanismi sociali, psicologici, etnici, religiosi, di classe che condizionano la nostra vita sociale»

Jacques Audiard 
 

Se dovessimo misurare la civiltà di un paese, in questo caso si tratta della Francia, dalla condizione dei detenuti, allora questo film ci mostra un paese messo decisamente male. Jacques Audiard costruisce, senza retorica e falsi moralismi, una critica aspra ad un sistema carcerario corrotto, dal quale nessuno esce migliore, e restituendo così un ritratto della Francia di oggi. Il carcere in cui il detenuto Malik è condannato a scontare sei anni per aver aggredito un poliziotto, è infatti un  vero e proprio microcosmo, in cui i detenuti e le guardie riflettono come in uno specchio la società che li ha, in un certo senso, prodotti in un continuo rimando fra esterno e interno, fra chi sta dentro e chi è fuori. Audiard esplora questo mondo con lo sguardo di Malik. Il ragazzo ha imparato, fin dal suo ingresso in carcere, che gli occhi conviene tenerli bassi, pensando a difendersi. Tutto inutile però. Malik capisce in fretta quali sono i meccanismi che regolano una vera e propria società parallela, e soprattutto impara a disprezzare gli altri uomini, glielo insegna il boss Luciani che decide in un certo senso di “adottarlo”, commissionandogli l’omicidio di  un detenuto che non deve testimoniare. Per Malik si tratta di una vero e proprio rito di iniziazione alla vita da criminale. Da quel momento in poi Malik smette in fretta di guardare il pavimento ed accettare solo ordini. 

E’ intelligente, osserva, impara le regole non scritte che convivono insieme a quelle ufficiali, impara a difendersi. E così il ragazzo entrato in carcere a 19 anni, spaventato, miserabile e pezzente, esce dopo sei anni rivestito a nuovo, mentre ad aspettarlo c’è la banda di criminali che ha costruito durante le uscite in libertà condizionata. Adesso Malik ha l’espressione fiera di chi, assaporato il gusto dolce del comando, ormai non si accontenta più. Il suo primo omicidio gli ha insegna a non avere più paura, a considerare la sua permanenza in carcere un vero e proprio apprendistato. Ma lo sguardo è anche quello visionario di un ragazzo cresciuto in fretta, capace di dare forma ai suoi incubi, fino quasi a prevedere il futuro. Brillano di intelligenza gli occhi del giovane Malik, nei primi piani di Audiard, e hanno la determinazione di chi è pronto a compiere il suo tragico destino. La sua missione.

È un film potente Il profeta, nel quale si viene letteralmente sorpresi dalla quantità di temi e situazioni che vengono esplorati a volte con rabbiosa fretta, altre con la calma di chi ripensa ad occhi chiusi, nella cella di isolamento, alla vita. Il tutto scandito da una regia che sa essere nervosa, movimentata, da una macchina da presa costantemente addosso ai protagonisti, ad indagarne con meticolosità gesti, corpi, ferite, sguardi. Il ritmo non cede mai, Audiard tiene costantemente alta la tensione, attraversando attraverso l’azione e la violenza, oltrepassando i labilissimi confini tra chi sta in cella e chi sconta la sua pena per la strada. Malik attraversa, con la disinvoltura di un capo, i delicati confini etnici che regolano il mondo criminale, imparando la lingua dei mafiosi corsi,  trattando con gli arabi, affrontando i marsigliesi e i mafiosi italiani. Una vera società multiculturale. Un film capace di emozionare profondamente gli spettatori, gettandoli in un mondo in cui c’è poco posto per l’umanità dei suoi abitanti. 

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