lunedì 26 ottobre 2009

Miss Little China – Italia 2009

Un documentario di Riccardo Cremona e Vincenzo De Cecco





È sempre un buon esercizio mettersi nei panni degli altri.
Peccato che quasi nessuno abbia voglia di farlo perché è molto più comodo restare nei propri.






È un viaggio interessante quello che ci propongono gli autori di questo documentario. Si parte dal Casinò di Venezia dove si stanno svolgendo le prove per eleggere la Miss della più numerosa comunità cinese in Europa, e si attraversa l’Italia, da Brescia a Roma, per costruire finalmente il ritratto di una comunità diventata una presenza ben visibile nelle nostre città. Presente eppure così poco raccontata ed esplorata, se non in occasione di eventi di cronaca come la rivolta dei commercianti della ChinaTown milanese o per lo scandalo latte contaminato dalla melanina. A tentare di comporre questa lacuna ci provano perciò Riccardo Cremona e Vincenzo De Cecco, giovani autori di documentari, con questo film accattivante. Prodotto dalla casa editrice ChiareLettere (www.chiarelettere.it), il film in un certo senso rappresenta il seguito di un fortunato saggio “I cinesi non muoiono mai” di Riccardo Staglianò e Raffaele Oriani, ai quali si deve anche il testo che accompagna il dvd. Anche in questo caso dunque il documentario si conferma uno dei pochi spazi in Italia in cui le immagini possono più liberamente compiere un’indagine sulla realtà, dando corpo a quel desiderio di conoscere, indagare e magari mettere in crisi consuetudini culturali e pregiudizi di cui si sente tanto bisogno in questi tempi.

Miss Little China è infatti un progetto ambizioso perché, se da un lato come dicevamo, i cinesi sono generalmente considerati una comunità chiusa, impenetrabile, fatta di uomini e donne poco disponibili ad integrarsi e a partecipare a forme di vita collettiva, impegnati solo a lavorare; dall’altro lato ognuno di noi conosce e utilizza categorie e pregiudizi che ci danno la sensazione di saperne già tutto sull’argomento. Ma come fanno ad aprire così velocemente i loro negozi e le loro imprese? Ma nei ristoranti chissà poi cosa si mangerà veramente? A chi non è capitato di farsi delle domande del genere e provare, con toni che vanno dal diffidente all’irragionevole, a trovare delle risposte. Forse per la prima volta un documentario italiano prova a scavalcare questo muro costruito su un misto di diffidenza reciproca e pregiudizio. E altrettanto per la prima volta questa comunità smette di essere un fenomeno buono per un articolo di sociologia, per diventare un gruppo costituito da esseri umani a tutti gli effetti. Dietro le insegne e le vetrine, dentro i laboratori e i magazzini stracolmi di merci, i cinesi, sudano, piangono, sognano. I protagonisti, e in questo sta anche l’abilità dei due autori, narrano la propria intimità personale e familiare con sorprendente generosità, rivelando il volto di un’umanità che, neanche troppo in fondo, ci assomiglia. La sensazione per chi guarda il documentario è, infatti, quella di una continua sorpresa, ma non tanto perché ci vengono rivelati eccezionali segreti, quanto piuttosto perché dalle immagini e dalle interviste emerge una quotidianità fatta di desideri e timori, di sacrifici e voglia di libertà.
Uno degli aspetti più significativi in questo senso sono i rapporti non sempre facili fra generazioni, fra chi è arrivato anni fa e i suoi figli, nati in Italia. Una mamma che piange commossa ripensando ai sacrifici fatti sognando il futuro della propria figlia, oppure gli adulti che si lamentano che i giovani di oggi non sanno più cosa sia il lavoro, o ancora la voglia di emanciparsi, di realizzarsi dei loro ragazzi, risuonano infatti molto vicini ai nostri discorsi e alle nostre preoccupazioni per il futuro. Tra l’altro proprio alle seconde generazioni, in un certo senso, è affidato il compito di rompere i clichè dichiarando come fa una delle ragazze interviste, che nella vita c’è altro oltre il lavoro. Che il futuro può essere pensato diversamente.

Insomma, ci accorgiamo di quanto i cinesi d’Italia non siano poi così diversi da noi. Ci assomigliano, o meglio assomigliano tanto a quegli italiani che partivano, poveri, a cercar fortuna. Fortuna anche quella costruita lavorando senza orari e risparmiando su tutto, con l’ambizione della scalata sociale, di affrancarsi da miseria e fatica. E così che i protagonisti di questo film diventano una sorta di specchio che ci rimanda l’immagine di come eravamo, riuscendo al tempo stesso a costruire per contrasto il ritratto degli italiani di oggi: di come siamo diventati lamentosi, impauriti, rancorosi e sospettosi, come gli ascoltatori della radio le cui voci fanno da contraltare alle interviste.

Forse perchè, in una gioco di ricorsi storici, temiamo di ritornare ad essere noi i cinesi di domani?



mercoledì 14 ottobre 2009

Videocracy - Basta apparire

Un film di Erik Gandini - Svezia 2009

“Per noi italiani la parola TELEVISIONE non si riferisce più soltanto all'apparecchio in sé. La Televisione è molto di più, è un’entità influente e mistificata con un ignoto e inquietante potere, trapelato ormai in quasi tutti gli aspetti della vita, del sogno e naturalmente della politica. Quasi come un mostro”.


Videocracy è un film duro da digerire, anche per chi vive in Italia e a certe cose dovrebbe essere in un certo senso abituato. Non eravamo sorpresi, infatti, difronte allo spettacolo dello strapotere televisivo sulla quotidianità di ciascuno, osservando quanto la tv sia diventata una scatola dei desideri, una sorta di specchio deformato della realtà e, allo stesso tempo, un generatore di sogni, strampalati, irrealizzabili e terribilmente affascinanti. Ciò nonostante, dopo la visione di questo documentario, un silenzio quasi imbarazzato accompagnava l’uscita degli spettatori dalla sala. Segno forse che un film come questo è necessario anche per chi è dotato di una certa consapevolezza.

Il regista Erik Grandini, nato in Italia ma da molti anni residente in Svezia, ha deciso di provare a raccontare quanto profondo e “disturbato” sia il rapporto degli italiani con la televisione, costruendo un’indagine dallo stile discreto, molto lontano da quello di Michael Moore, e collocandosi in una posizione da osservatore esterno, che assiste al compiersi di un vero e proprio esperimento sociale. Esperimento iniziato una ventina d’anni fa quando, in un quiz su una tv privata, il premio per gli spettatori era lo spogliarello di una casalinga. Gandini lascia molto spazio ai protagonisti e alla loro voglia di mettere in scena se stessi, senza grandi inibizioni o pudori. E così, uno dopo l’altro compaiono sulla scena gli abitanti di un mondo che ciascuno conosce bene, personaggi di quell’universo dorato, che alcuni subiscono, ma in cui la maggior parte dei giovani italiani aspira ad entrare, subito. Videocracy svela, o meglio, rende visibili soprattutto le loro ossessioni, da quelle di personaggi già famosi e a pieno titolo “stelle” del panorama televisivo italiano fino a quelle di una moltitudine di sfigati che, è triste da dire, ma comprensibilmente aspirano anche loro a diventare ricchi non facendo quasi nulla.

E così nel documentario, all’ostentazione del proprio potere mediatico assoluto di un Lele Mora, vestito di bianco nella sua villa esclusiva in Costa Smeralda, attorniato come un imperatore decadente dai suoi tronisti, si alterna il patetico ritratto di Riccardo, ragazzo bresciano che, consapevole di quanto fare l’operaio sia ormai considerato un fallimento, aspetta ostinato che arrivi anche per lui il successo. In fondo che ci vuole, basta che proprio uno come Lele Mora scopra che a Brescia vive il “Van Damme italiano”. Nel mezzo, vero e proprio anello di congiunzione fra questi due livelli dell’evoluzione dell’uomo televisivo italico, c’è Fabrizio Corona, campione di cinismo e ostentazione di sé. Personaggio davvero interessante, dotato di un’ignoranza triste e feroce al tempo stesso, capace di annullare qualsiasi confine tra dimensione pubblica e privata innanzitutto nella sua vita, si definisce una specie di Robin Hood moderno che ruba ai ricchi ma, anziché dare ai poveri, tiene per sé il malloppo. E davvero i soldi sono per lui l’ossessione, fonte e obiettivo di quella frenesia che lo porta a vedere nei vip da fotografare delle macchinette per far soldi, rapidamente e senza grandi fatiche. Con il suo agire, al di là di ogni regola e in un certo senso senza consapevolezza, mette in atto una vera e propria vendetta nei confronti dello stesso sistema che lo ha generato. Un sistema che senza dubbio però sarà presto in grado di riassorbire il ribelle. Non sarà Corona a sconfiggere infatti una moltitudine di ragazze che aspirano a diventare una velina e a sposare un calciatore, non sarà lui a mettere in crisi davvero un modello così seducente. Dovremo aspettare e sperare, sdegnati, in qualcosa di meglio.

Piccola nota a margine: Rai e Mediaset non hanno neanche voluto trasmettere il trailer di questo film, definendolo un attacco all’attuale governo: se ci fosse stato bisogno dell’ennesima prova di quanto politica e spettacolo siano ormai due universi coincidenti, non avrebbero potuto far meglio.